Don Pino Demasi, referente di Libera sullla Piana di Gioia Tauro, ha analizzato il significato che la strage di Capaci ha assunto per i cittadini onesti provocando un vero e proprio risveglio culturale e sociale, specie per le giovani generazioni.
Il risveglio dei cittadini onesti: il frutto buono di Capaci
Ci sono date, nella lotta alle mafie, che segnano un prima e un dopo; date che non si possono dimenticare; date che consegnano alla storia persone che hanno creduto nello Stato, nella giustizia, nell’onestà e sono diventate simboli di un riscatto. Il 23 maggio è una di queste date che nessuno ha il diritto di dimenticare.
Il che significa innanzitutto convincersi che quel riscatto non è compiuto del tutto e che, quindi, chiede ogni giorno nuovo impegno perché le mafie sono davvero una piovra tentacolare sempre pronte a riemergere, approfittando delle difficoltà in cui si dibatte la società.
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A 30 anni dalla strage di Capaci, dalla morte di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, e degli agenti Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, corriamo, infatti, il rischio di una normalizzazione del pericolo mafioso. Rischio del pensare che una mafia meno cruenta non rappresenti più un pericolo, laddove è vero il contrario: una mafia organizzata come un’impresa, insediata nel tessuto economico, capace di arricchirsi nell’ombra, è più forte di quando imponeva il suo potere con le armi e le stragi.
Non è più sufficiente e né accettabile parlare delle mafie come di un fenomeno esclusivamente criminale, senza metterne in luce le radici sociali, economiche, politiche. Il problema veramente grave nel nostro Paese è, oggi, la commistione tra mafie e corruzione, una commistione che si manifesta come intreccio di criminalità organizzata, criminalità politica, criminalità economica.
Una commistione favorita da una democrazia sempre più debole, malata e diseguale. Ecco allora che ricordare oggi Giovanni Falcone e i martiri di Capaci significa ripensare la lotta alle mafie, impegnandosi con maggiore slancio e maggiore incisività per il cambiamento. Un cambiamento che richiede molto più che politiche d’occasione o misure calibrate secondo la logica dell’emergenza, se vogliamo evitare il rischio di morire di «mafiosità strisciante», di relazioni umane sempre più segnate dall’avidità, dalla furbizia, dai privilegi del potere.
Le mafie, non dimentichiamolo, si alimentano di povertà, di disperazione, d’ignoranza. E generano povertà, disperazione, smarrimento di valori etici e di riferimenti culturali. E allora lotta alle mafie oggi più che mai, in un Paese segnato dalla pandemia e dalla guerra, deve significare creare condizioni di maggiore giustizia sociale. Si tratta di assicurare a tutti, i diritti sociali fondamentali, sanciti dalla Costituzione, quali il lavoro, la casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria. È l’antimafia sociale che si affianca all’antimafia della repressione e della cultura.
Antimafia sociale che deve vedere impegnati in un unico fronte istituzioni e società civile, nel continuare a costruire quel “noi” collettivo, fatto di condivisione e di corresponsabilità, nato, appunto, all’indomani delle grandi stragi. Un noi intriso di convergenza di passioni e di competenze, di rifiuto di personalismi e di deleghe. Un “noi”, fortemente animato dai familiari delle vittime di mafia e dai giovani. Ne ho incontrati tanti in giro per l’Italia, ma ne ho incontrati tantissimi anche in Calabria e nei nostri territori.
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Familiari che entrano nelle scuole e nelle carceri per portare la loro testimonianza. Giovani che mettono la faccia abitando i beni confiscati alla ndrangheta. Tanti di loro, patrimonio di questa terra da cui non intendono andare via. Ma vanno sostenuti ed incoraggiati garantendo loro gli strumenti necessari per realizzare le loro passioni, le loro capacità, il loro amore per il bene comune. Non farlo sarebbe danneggiare loro e continuare a danneggiare il nostro territorio privandolo delle migliori energie. E tra i giovani una particolare attenzione dobbiamo dare in questo momento ai cosiddetti “figli della ndrangheta”, sostenendo il progetto “Liberi di scegliere”.
Un grande calabrese ed un grande prete, a cui tutti dobbiamo molto, don Italo Calabrò diceva: «Non basta essere antimafia, occorre reimpostare tutta una cultura della vita». È questo il miglior modo per ricordare le vittime della strage di Capaci. Non occorrono eroismi ma solo umiltà, tenacia, passione per il bene comune e soprattutto il coraggio di rispondere ogni giorno alla propria coscienza.
* Referente Libera Piana di Gioia Tauro