Il sacerdote vive in Calabria ormai da ben ventidue anni. Impossibile però dimenticare il tempo vissuto nel villaggio con parenti e amici d’infanzia
Giornata Africa, don Pascal Nyemb: «Ricchi di gioia perché fratelli»
Secondo il prete originario del Camerun ci sono ancora fortissime discriminazioni che portano allo sfruttamento sia in Africa che in Occidente
di Federico Minniti
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Don Pascal Nyemb vive in Calabria ormai da ben ventidue anni. Impossibile però dimenticare il tempo vissuto nel villaggio con parenti e amici d’infanzia. È importante celebrare la Giornata dell'Africa, ma secondo il prete originario del Camerun ci sono ancora fortissime discriminazioni che portano allo sfruttamento.
Cos'è l'Africa? Don Pascal Nyemb ci porta nei suoi ricordi partendo dalla giornata odierna
Oggi è la Giornata internazionale dell’Africa. Ne abbiamo parlato con Yves Pascal Nyemb, direttore del Centro Diocesano Missionario e parroco di Santa Maria dell’Arco in Bovetto a Croce Valanidi. Originario di Eseka, città del Camerun centrale a pochi chilometri dalla capitale Yaoundé, ha trascorso metà della sua vita in un villaggio prima di completare gli studi ed essere ordinato sacerdote a Reggio Calabria, sua città adottiva da ventidue anni.
Cosa le manca del suo villaggio in Africa?
Quando cresci in un posto, lo porterai sempre dentro di te. Mancano i parenti, manca la vita di tutti i giorni. Venendo in Europa ho conosciuto una cultura diversa, ciò che manca è il sentirsi fratelli anche se non si ha nulla da condividere se non la gioia di fare festa insieme.
Eppure dall’Africa in tanti, tantissimi, scappano ancora.
Proprio questo è uno dei punti di forza di chi vuole mantenere l’Africa sottosviluppata. Quando parlo con loro e gli dico che in Europa ci sono tante difficoltà e il loro arrivo da clandestini equivale a vivere in strada, molti non mi credono e provano comunque questa strada.
L’Africa, però, è un continente potenzialmente ricchissimo.
Non lo sanno. La cultura è ad appannaggio di pochi. La maggior parte fa lavori umili, spesso usuranti. E alcuni non posso “permettersi” neanche quelli. È normale che la gran parte provi la via della fuga, ma se si vuole davvero aiutare l’Africa bisognerebbe invertire la rotta.
Come?
Non mandando soldi una tantum senza controllare, spesso “comprando” i governanti locali. Bisogna investire in progetti fondamentali come istruzione, salute e lavoro. Altrimenti si continuerà a coltivare lo sfruttamento e la schiavitù.
Ha ancora senso parlare di queste cose nel 2022?
Lo ha, eccome. Dovremmo iniziare a considerare - davvero tutti - l’uomo africano come un dono di Dio. Troppo spesso questo non avviene ed è una ferita che fa male. Non ha senso che i paesi sviluppati, come l’Europa e l’America, provino a lavarsi la coscienza inviando soldi. Serve formare culturalmente le persone, formare i giovani. Tanto in Occidente quanto in Africa e ovunque nel mondo.
Secondo lei come si potrebbe smantellare questa mentalità?
Stando con gli africani così come hanno fatto i missionari. I primi che sono arrivati in Africa non sono venuti a parlare di Gesù, ma hanno scelto la via dell’amicizia e della condivisione. Potete immaginare le difficoltà che hanno incontrato giorno per giorno. Difficoltà di ogni tipo, dovuti alla diffidenza. Muri abbattuti con la semplicità del Vangelo: quel “restare” era la testimonianza più forte che c’è un Dio che non abbandona. La mia vocazione è nata proprio così: grazie ai miei genitori che si sono fidati di Dio e, ogni giorno, ci hanno educato alla preghiera.
Oggi lei è il responsabile del Centro missionario a Reggio Calabria. Quali sono le sfide che affronta quotidianamente?
Annunciare il Vangelo. Il nostro lavoro è tutto qui. Amare Dio, conoscere Dio, servire Dio. Su come farlo prendo in prestito delle parole di San Francesco d’Assisi: servite il Signore con le azioni e, se potete, anche con le parole. Penso sia un insegnamento universale che aiuterebbe tutti ad essere più solidali tra di noi.
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