Avvenire di Calabria

Il 27 gennaio è ormai entrato di diritto nel calendario collettivo come una data da cerchiare in rosso per non dimenticare

Giornata della Memoria, anche la Calabria non dimentica i drammi della Shoah

La Calabria e le deportazioni: dal profondo Sud storie di sofferenza, resistenza e memoria. Un impegno che non si affievolisce

di Federico Minniti

Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram
Share on facebook
Share on twitter
Share on whatsapp
Share on telegram

La Calabria e le deportazioni: dal profondo Sud storie di sofferenza, resistenza e memoria. Un impegno che non si affievolisce. Il 27 gennaio è ormai entrato di diritto nel calendario collettivo come una data da cerchiare in rosso per non dimenticare.

Conservare la memoria, il significato della Giornata in Calabria

Almeno 9 calabresi sono stati deportati nel campo di concentramento di Sachsenhausen, vicino Berlino durante la seconda guerra mondiale. Venivano dalle province di Cosenza (6) e Reggio Calabria (3).

È quanto emerge dalla ricerca fatta da Claudio Cassetti, Jacopo Buonaguidi e Francesco Bertolucci racchiusa nel libro “Gli italiani a Sachsenhausen” edito da Panozzo Editore con contributo dell’associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti (Aned) e acquistabile sia in forma digitale che cartacea all’indirizzo www.deportatiberlino.it e sul sito della casa editrice.

I tre autori, i primi due guide al memoriale del campo di concentramento e giornalista il terzo, sono riusciti a creare questa lista di nomi che fino ad oggi era solo parziale: non era ancora stato fatto uno studio approfondito ed esclusivo sugli italiani deportati in quello che era noto come il campo modello delle SS, situato nella città di Oranienburg a 35 chilometri da Berlino.

Partendo dal materiale esistente come ad esempio la monumentale ricerca di Brunello Mantelli e Nicola Tranfaglia sui deportati italiani nei campi di concentramento nazisti, una prima lista di nomi raccolta da Aned o l’opera di Italo Tibaldi sui treni della deportazione, i tre autori hanno scandagliato la bibliografia presente alla quale hanno aggiunto una ricerca negli archivi italiani ed europei oltre a cercare nell’archivio del campo di concentramento stesso.


I NOSTRI APPROFONDIMENTI: Stai leggendo un contenuto premium creato grazie al sostegno dei nostri abbonati. Scopri anche tu come sostenerci.


Ne è emerso un libro che fonde la ricerca con le storie dei deportati stessi dove vengono raccontati gli esperimenti e le angherie subite, la vita nel campo e la morte come compagna di viaggio. L’elenco totale dei deportati e deportate considerate nella ricerca è di oltre 700 persone i cui nomi sono tutti pubblicati nel libro.

Tra queste però erano presenti persone non riconoscibili con certezza come italiane o non è stato del tutto dimostrabile che siano state deportate a Sachsenhausen. Dopo la cernita fatta dai tre autori grazie all’uso delle fonti, il numero degli italiani sicuramente passati per l’inferno del campo di concentramento alle porte di Berlino è arrivato comunque a ben oltre le 500 persone.

Il campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia

"Ho ordinato e pagato il 16 luglio a Tarsia "L'Osservatore Romano". Oggi 22 agosto è arrivato il primo numero". Così scriveva padre Callisto Lopinot nel suo diario del 1941. Niente di eccezionale, non fosse che il sacerdote era il cappellano del più grande campo di concentramento per ebrei e stranieri costruito in Italia dopo le leggi razziali del 1938, quello di Ferramonti di Tarsia, in Calabria.

Dunque, il quotidiano della Santa Sede arrivava in un luogo impensabile in un periodo in cui il regime certo non godeva dei favori della Chiesa. In una circostanza il giornale del Papa vi arrivò persino con più copie. "Il 24 dicembre - annota infatti lo stesso anno padre Lopinot - molti cattolici ed ebrei alle ore 12.30 hanno ascoltato nella cappella il discorso radiofonico del Santo Padre. Quando poi "L'Osservatore Romano" ha riportato il discorso, questo è stato addirittura divorato da tutti gli internati di qualsiasi nazione e lingua. La notizia di una tiratura a parte ha avuto una così grande richiesta che mi sono deciso a ordinare 100 esemplari. Molte persone vogliono un numero per se stesse".

Già in questi particolari si può cogliere la singolarità di quel campo, tanto atipico da essere definito qualche anno fa "un paradiso inaspettato" dal "Jerusalem Post" o "il più grande kibbutz del continente europeo" dallo storico Jonathan Steinberg dell'università di Cambridge. Ma a renderlo differente da tutti gli altri, da quelli fascisti più tristemente famosi, come la Risiera di San Sabba e Fossoli, e soprattutto da quelli nazisti, fu la qualità di vita che gli internati riuscirono a mantenere nonostante tutto.

Fra il 1940 e il 1943 più di duemila persone vissero in questo luogo che, malgrado l'aspetto esteriore - quello sì, simile in tutto a un lager - rappresentò per molti ebrei una fonte di vita e di salvezza. E qui, attraverso padre Lopinot, si concretizzo in maniera esplicita la sollecitudine di Pio XII verso le vittime dell'antisemitismo, con l'invio a più riprese di somme di denaro e di altri aiuti. Proprio il ruolo essenziale svolto dal Vaticano, e dal Papa in prima persona, nel principale campo di concentramento fascista è evidenziato con particolare forza da Mario Rende nel libro Ferramonti di Tarsia (Milano, Mursia 2009, pagine 276, euro 19) nel quale grazie a documenti e a testimonianze originali ne ricostruisce la storia.

Ma più che sui fatti - peraltro già noti - si sofferma sui due uomini straordinari, dimenticati troppo in fretta, che resero possibile questo miracolo della compassione e del rispetto della dignità umana: padre Lopinot, appunto, che tenne le relazioni fra il Vaticano e la comunità ebraica, occupandosi dei bisogni spirituali e materiali degli internati, cattolici e non, e il direttore del campo, il commissario Paolo Salvatore, un funzionario statale che non esitò ad arrivare alle mani pur di difendere gli ebrei. Il campo - allestito nella valle del fiume Crati, a circa sei chilometri da Tarsia, nel Cosentino, in una zona malsana, malarica e paludosa - fu aperto il 20 giugno 1940 e raggiunse una punta massima di 2.700 persone nell'estate 1943.

Era costituito da 92 baracche su un'area di circa 160.000 metri quadrati, circondato da un recinto di filo spinato, sorvegliato dall'esterno dalla milizia fascista e all'interno da agenti di pubblica sicurezza. Dall'autunno del 1941 gli internati di Ferramonti non furono più soltanto ebrei. Dalla Jugoslavia occupata, cominciarono ad arrivare numerosi uomini politici e semplici cittadini accusati di aver avuto contatti con i partigiani. Nel novembre 1941 arrivarono i primi nuclei di cinesi; altri profughi fuggiti dai campi di concentramento di Germania e Polonia giunsero da Rodi. Tutto lasciava presagire una reclusione dura, resa più drammatica dalle notizie che arrivavano sulla sorte degli ebrei deportati oltre confine. Eppure, scrive Rende:

«Nelle stesse ore in cui nei lager nazisti i bambini ebrei venivano separati dai genitori e avviati a morte, Salvatore scarrozzava i bambini a bordo dell'auto di servizio fino al paese di Tarsia dove offriva loro un gelato»

Gli internati realizzarono ben presto una organizzazione interna basata sull'elezione di un delegato per ogni baracca.

I prescelti, riuniti in una sorta di assemblea, eleggevano un rappresentante generale di tutti i reclusi. Il direttore del campo riconosceva ufficiosamente l'esistenza degli organi di autogestione e vi si appoggiava per mantenere la tranquillità necessaria. All'interno furono attrezzati una scuola, un asilo, un ambulatorio medico e, inoltre, si svilupparono varie attività artistiche, culturali e persino religiose. Infatti, il 22 maggio 1941, in occasione della prima visita del nunzio apostolico Francesco Borgongini Duca, gli internati chiesero di avere a Ferramonti un'assistenza spirituale permanente. Due mesi dopo fu inviato nel campo il cappuccino padre Lopinot, allora sessantacinquenne, che presto riuscì a ottenere la stima anche dei non cattolici. Tra i reclusi c'erano inoltre alcuni rabbini e all'interno del campo vennero aperte tre sinagoghe. A Ferramonti si recò più volte il rabbino capo di Genova, Riccardo Pacifici, celebrandovi solenni cerimonie.

Fu pure edificata una cappella cattolica - la notizia della posa della prima pietra venne pubblicata in prima pagina da "L'Osservatore Romano" il 24 dicembre 1941 - e il Papa fece pervenire in dono persino un harmonium. Insomma, pur tra immaginabili difficoltà, grazie al direttore - capace di rimanere un uomo nonostante leggi infami, regolamenti disumani e fanatismi - si cercò il più possibile di vivere un'accettabile parvenza di normalità. Ciononostante la paura di essere consegnati alle forze tedesche era sempre molto grande.

«In questo ambito - sottolinea Rende - fu molto viva l'attività di padre Lopinot che più volte interessò il Vaticano sulla sorte degli internati di Ferramonti. A sua volta il Vaticano intervenne più volte sul governo fascista per evitare qualunque deportazione da Ferramonti».

E davvero nessuno venne deportato. Così come nel campo "non si verificò mai nessun episodio di maltrattamento o morte violenta di internati causati dalle forze di polizia o dalla milizia fascista". Non solo, dopo l'armistizio, a pochi metri dal campo, lungo la statale 18, passò l'intera armata tedesca "Hermann Göring" in ritirata. "Per evitare pericoli - annota l'autore - con il beneplacito della direzione tutti gli ebrei che potevano furono fatti scappare nelle campagne circostanti. Per evitare intrusioni e a protezione degli ebrei rimasti si issò all'ingresso del campo una bandiera gialla a simbolo di epidemia e si piazzarono delle mitragliatrici nascoste tra le baracche". Il 14 settembre entrarono nel campo gli inglesi, dando inizio alla seconda fase delle storia di Ferramonti, ma non meno impegnativa per il cappellano, che divenne la figura più importante in un momento in cui la situazione stava andando fuori controllo.

Egli si impegnò per far arrivare nel campo vestiario e viveri per gli internati rimasti. Anche in questa circostanza padre Lopinot mantenne i contatti con il Vaticano, in particolare con il sostituto, monsignor Giovanni Battista Montini, al quale chiese un aiuto - una costosa fornitura di stoffa per confezionare abiti - che puntualmente ricevette e utilizzò per tutti i deportati (in precedenza c'era stato malumore perché una fornitura di cibo arrivata attraverso organizzazioni sioniste era stata distribuita solo tra gli ebrei).


Non perdere i nostri aggiornamenti, segui il nostro canale Telegram: VAI AL CANALE


“Una come me è pessimista, una come me ritiene che tra qualche anno ci sarà una riga, sul libro di storia, e che poi non ci sarà più neanche quella”. È la triste affermazione della senatrice a vita Liliana Segre che, con la sua voce, tiene ancora oggi vivo il ricordo del periodo più buio della storia. Le parole della senatrice che ha vissuto in prima persona l'orrore di Auschwitz sono state pronunciate alla presentazione del palinsesto di eventi per il Giorno della Memoria del Comune di Milano e vogliono essere un invito a non dimenticare, continuando a parlare di quanto accaduto soprattutto ai giovani. Era, il 27 gennaio del 1945 quando le truppe dell'Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. Quella data è stata scelta per commemorare ogni anno la Shoah e lo sterminio di oltre 6 milioni di ebrei. Diverse le iniziative anche in Calabria nelle piazze e nelle scuole della regione.

La lettera aperta del vicepresidente Princi ai calabresi

In occasione dell'importante appuntamento annuale con la Memoria, un appello particolare lo rivolgo alle Scuole, certa della rilevanza che daranno all'educazione su temi cruciali nella formazione degli studenti, come la memoria storica della vergogna dell'Olocausto, la difesa della libertà ed il rispetto della vita.” Lo scrive il Vicepresidente della Giunta regionale della Calabria, Giusi Princi, che detiene anche la delega all’Istruzione.

“Non si tratta di una ricorrenza come le altre: la lettura, l'approfondimento e l'analisi dei percorsi didattici che possono essere realizzati in questa occasione sul drammatico sterminio degli ebrei hanno un impatto sociale fortissimo, sono finestre sul mondo che ci permettono di capire il passato e di evitare che gli errori si ripetano nel futuro. Nel corso di questi mesi difficili, nostro malgrado, abbiamo tutti acquisito piena consapevolezza di quanto sia delicato l'equilibrio della pace; la guerra in Ucraina è un esempio di come la mancanza di comprensione e di dialogo possa portare a conflitti e sofferenze evitabili, forse addirittura inutili. È importante che la Scuola si impegni a trasmettere una memoria storica critica, che permetta agli studenti di comprendere gli eventi trascorsi e di riflettere su come occorra indirizzare le scelte politiche e sociali. La scuola deve diventare un luogo di formazione e di educazione per la pace, dove gli studenti possono imparare a rispettare le diversità culturali e a promuovere il dialogo e la concertazione. In questa giornata particolare, vorrei esortare ogni docente a dedicare un momento di riflessione e di approfondimento sulla storia della guerra in Ucraina e sull'importanza di fare tesoro degli insegnamenti del passato. La scuola ha un ruolo fondamentale nella sensibilizzazione e nella formazione dei giovani, e siamo certi che Voi tutti – scrive il Vicepresidente rivolgendo il suo messaggio alla società civile, agli educatori e non ultimo ai giovani - saprete approfittare di questa occasione per scuotere le coscienze e promuovere la cooperazione, il rispetto, la tolleranza, la difesa della libertà e della democrazia, senza mai dare nulla per scontato".


PER APPROFONDIRE: Giornata della Memoria, in Calabria cerimonia a Ferramonti


"Questo messaggio vorrei fosse letto anche come un appello accorato ad ogni calabrese – scrive in conclusione il Vicepresidente Giusi Princi - Facciamo tesoro di cose è accaduto in passato, perché oggi come non mai, si avverte il grave pericolo di una società civile incapace di ascoltare e di indignarsi sui tanti episodi di intolleranza e discriminazione. Occorre tenere vivo il ricordo di ciò che è avvenuto nella prima metà del secolo scorso, per mantenere la capacità e l'umanità di guardare sempre all'altro con interesse e senso di inclusione.”

Il Presidente Mancuso sulla Giornata della Memoria: “Fondamentale ricordare”

“È fondamentale ricordare il sacrificio di milioni di vittime innocenti della Shoah e dell’Olocausto, affinché gli orrori del secolo scorso non accadano più. Occorre tenere alta l’attenzione e sostenere la consapevolezza critica, soprattutto delle nuove generazioni, perché la notte della ragione genera mostri”. È quanto afferma il presidente del Consiglio regionale della Calabria Filippo Mancuso, nella ricorrenza della Giornata della Memoria, “che – aggiunge - deve essere un’occasione di approfondita riflessione sull’immane tragedia del nostro passato, per sconfiggere ogni indifferenza, educare i giovani alla libertà e per contrastare, come dice la senatrice a vita Liliana Segre, il pericolo dell’oblio”.

Ferro: "Trasmettere valore della democrazia e della libertà"

“Celebrare la Giornata della Memoria non è solo esercizio della memoria degli orrori del passato, non è solo il dovere di trasmettere ai più giovani il valore della costruzione della democrazia e della libertà,  ma è anche la responsabilità di comprendere ed affrontare le dinamiche di odio e violenza presenti nella nostra società e combattere l’indifferenza”. E’ quanto ha affermato il sottosegretario all’Interno Wanda Ferro, con delega alle Libertà civili, intervenendo questa mattina alle celebrazioni della Giornata della Memoria nel campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza. “La memoria – ha detto l’on. Wanda Ferro - insegna che ciascuno può fare sua parte. La nostra responsabilità è nel tenere viva la tensione contro il razzismo, contro le manifestazioni d’odio, contro l’antisemitismo che emerge ancora con molte facce nella nostra società e si manifesta con atti vandalici, con messaggi intimidatori, con insulti, ancor di più nel mondo virtuale. Onorare la memoria della Shoah significa quindi anche contrastare questi comportamenti che feriscono le nostre comunità, significa isolarne i responsabili, e su questo c’è la massima attenzione del Ministero dell’Interno attraverso la puntuale attività di monitoraggio condotta dall’Osservatorio per la Sicurezza contro gli atti discriminatori”.

“Ferramonti – ha aggiunto il sottosegretario Ferro - è un sacrario della memoria, un luogo che trasmette la responsabilità della testimonianza dell’orrore della Shoah, della vergogna delle leggi razziali, delle persecuzioni, delle deportazioni, della privazione della libertà e della morte. Ma anche un luogo che testimonia la possibilità di ciascuno di accendere una piccola luce di speranza anche negli abissi più profondi della violenza, dell’oppressione, dell’odio. Perché Ferramonti è anche l’umanità e il coraggio di Paolo Salvatori, del  maresciallo Marrari, di tutti coloro che sfidando leggi ingiuste hanno ascoltato la legge della propria coscienza, salvando la vita a migliaia di internati e rendendo meno dolorosa quella che fu pur sempre, non dimentichiamolo, una prigionia. Perché Ferramonti è anche la solidarietà spontanea e naturale dei cittadini di Tarsia, dei contadini dei dintorni, gente estranea alla violenza dei tempi, estranea alla follia del razzismo, che ha saputo esprimere vicinanza e accoglienza agli internati. Grazie a coloro che si sono rifiutati di assecondare il progetto di sterminio, a coloro che hanno protetto le famiglie al momento del passaggio dell’esercito tedesco, e che restano un esempio per ciascuno di noi”.

“Dobbiamo essere vigili – ha concluso il sottosegretario Ferro - perché la memoria non sbiadisca, perché all’odio non ci sia assuefazione, perché gli orrori del passato possano ripresentarsi silenziosamente e nell’indifferenza, ancor più in tempi in cui una nuova guerra semina morte e dolore ai confini dell’Europa. Lo dobbiamo alle vittime della Shoah, a chi oggi porta i segni di quelle atrocità, agli uomini e alle donne giusti e coraggiosi che hanno rischiato o sacrificato la propria vita per salvarne altre dall’odio, dalla violenza, dalla persecuzione, e per affermare i valori della libertà e della sacralità della vita umana”.

Bruni: “Non dimenticare mai l’orrore nazista, barbarie simili non devono più ripetersi”

“Quanta tristezza è racchiusa nel mio povero cuore di prigioniero. Lagrime silenziose oggi sono scese pensando al mio crudo destino, lagrime che han fatto bene al mio essere alleggerendolo di tanto [...] gravoso con della mistica rassegnazione. Il dottore mi ha dato 20 giorni di riposo. Ma varrà soltanto questo a guarirmi. È il tremendo interrogativo cui ho tanta paura di rispondere”. Dal diario di mio padre, Antonio Bruni, prigioniero nei campi nazisti. Poche righe per comprendere il terrore, lo sgomento e la disperazione di persone, come mio padre, condannate a vivere in condizioni orribili e con la paura di poter morire da un momento all’altro. La storia, però, sembra non averci insegnato nulla nonostante l’Olocausto ci ricordi come la follia umana può determinare stragi di innocenti, milioni di morti per la supremazia di una razza rispetto a un’altra. Brividi di orrore, eppure da undici mesi, alle porte di casa si combatte una guerra che sta producendo decine di migliaia di vittime da entrambe le parti senza che si intraveda la speranza della fine di un conflitto bellico assurdo. Il giorno della memoria, dovrebbe ricordare a tutti noi la luce della ragione e non riportarci indietro alla follia delle tenebre. L’umanità non sopravvivrebbe a un nuovo Olocausto, tutti insieme dobbiamo costruire un mondo migliore, lo dobbiamo alle nuove generazioni”. Lo scrive in una nota Amalia Bruni, Presidente del Gruppo Misto in seno al Consiglio Regionale.

Occhiuto: "Giovani devono sapere, atrocità non si ripetano mai più"

“Nel giorno della memoria ricordiamo con commozione le vittime innocenti dell’odio e dell’intolleranza, e le atrocità dell’Olocausto. È importante celebrare questo appuntamento, e raccontare ai più giovani gli orrori di quegli anni, affinché simili barbarie non si ripetano mai più”. Lo scrive su Twitter Roberto Occhiuto, presidente della Regione Calabria.

Articoli Correlati