Avvenire di Calabria

Aurora D’Ermenegildo racconta la sua storia Il suo cammino di fede è stato di ispirazione per diverse famiglie

I Figli della Luce, «la rinascita dopo la morte di mio figlio»

Tatiana Muraca

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L a voce a tratti spezzata dalla malinconia, ma che mostra una forza che solo una fede profonda nel Signore può dare. Aurora D’Ermenegildo è una donna, una madre, che ha vissuto una delle tragedie più forti che si possano affrontare nella vita, la perdita di un figlio. Era il 2006, e da allora è iniziato il travaglio di Aurora, fatto di molti bassi, ma anche di alti. Un lungo anno durante cui una madre cerca di trovare la causa di un lutto così innaturale, in cui si sperimenta il dolore, quello vero, giorni interminabili che portano ad alienarsi in un mondo tutto proprio, incomprensibile per molti. «Ti ritrovi completamente spiazzata. In una situazione così tragica e improvvisa. Quando mio figlio è morto, io ricevetti molte visite. La gente ti stava vicino davvero perché voleva esserti d’aiuto, ma nessuna frase sembrava quella giusta per me. Mi sentivo toccata anche a livello fisico, tutto mi infastidiva». Un incontro ruppe questo stato d’animo: quello con caro un amico, al quale era venuto a mancare il figlio, che a sua volta conosceva il figlio perso di Aurora. «Mi abbracciò e mi disse: “Io so cosa provi”. Ed in quell’abbraccio ho trovato consolazione». Da questo abbraccio parte un po’ tutto: nei mesi successivi alla tragedia, Aurora pensava ancora a quel gesto che le aveva scaldato il cuore, un gesto che anche lei poteva offrire a chi ne aveva bisogno. Tante piccole coincidenze, la portarono ad avvicinarsi ad altre mamme in lutto per i propri figli: da una lettera scritta di getto, ad un “ciao”, ad un semplice sguardo. A distanza di un anno dalla morte dell’amato figlio, Aurora cominciò ad approfondire e a vivere il sentimento della consolazione, «che non poteva venire solo da un essere umano, perché il dolore era più che fisico, era insito. Fu allora che ho iniziato a cercare Dio, ad allontanare da me la rabbia iniziale e a vivere la religione non più solo da cattolica osservante. Iniziai a pensare – ci racconta Aurora – che debba esistere una logica dietro simili avvenimenti, una logica che solo Lui può comprendere. In quel momento, i brani di Giobbe e la mano del Signore mi vennero incontro. Iniziai a leggere, a interessarmi di Dio in maniera diversa, questo Dio che sa consolare anche senza spiegazione». “C’è bisogno che il chicco di grano muoia perché nasca una pianta”, questa è una frase che tornava sempre in mente ad Aurora, in maniera incessante, anche quando tentava di scacciarla dai suoi pensieri. A distanza di tempo ne ha compreso il significato: «Ero io, la donna di prima, che doveva morire. Mi sono sentita migliore». Da questa nuova consapevolezza, Aurora continuò la sua ricerca orientata verso le altre mamme. Le cercava nei cimiteri, osservava il loro dolore e meditava sul giusto modo per poterle aiutare, tutte coloro che volevano essere aiutate. Si, perché in molte rimangono pietrificate dalla morte, non riescono a comprendere il percorso di luce che dopo la dipartita porta lo spirito di chi ci lascia verso il Signore, come una purificazione. «Tutto quello che mi sembrava prima un luogo comune della religione - aggiunge Aurora - iniziavo a vederlo in maniera diversa. Fu allora che iniziai a parlare con mio figlio, a spingerlo verso la luce. Sono passata dallo sniffare l’odore delle sue maglie, a coltivare un quarto senso, che solo una mamma in lutto può capire, quello dell’anima, da cui derivava la mia consolazione. Mi arrivavano dei segni: era come se mio figlio rispondesse alle mie domande, tramite una canzone, un’omelia del sacerdote, ad una farfalla che mi volava vicino». Dalla rabbia, Aurora si è trovata coinvolta in un progetto, voluto e alimentato da Dio, «un soldo che non potevo conservare, ma che dovevo portare a fruttare, perché non avevo più paura»: i Figli della Luce.

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