Avvenire di Calabria

A vent'anni dalla morte del giornalista, cresciuto in azione cattolica, e riconosciuto Grand'Ufficiale della Repubblica per meriti di lavoro nel campo socio-assistenziale

Nasone: «Vi racconto chi era Tavazza, il papà del volontariato»

Redazione Web

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Luciano Tavazza è stato un giornalista italiano cresciuto nell'Azione Cattolica. Dal 1984 al 1991 partecipa con i parlamentari italiani di ogni partito alla redazione della legge quadro sul volontariato (Legge 11 agosto 1991, n. 266). Negli anni successivi, fino al 1999, viene cooptato, in qualità di esperto, da tutti i Ministri degli Affari e della Solidarietà Sociale che si sono succeduti, specialmente in riferimento agli adempimenti della legge quadro sul volontariato e, in particolare, nella preparazione delle Conferenze Nazionali Governative del Volontariato all’interno dell’omologo Osservatorio istituito presso il Ministero poi denominato del Lavoro e Politiche sociali. Il Presidente della Repubblica Italiana Giovanni Leone decreta, nel 1975, la nomina di Grand’Ufficiale della Repubblica per meriti di lavoro nel campo socio-assistenziale. Il suo rilevante contributo culturale nell’ambito del terzo settore viene testimoniato dall’organizzazione e dalla partecipazione a molti convegni, seminari ed incontri su scala internazionale, nazionale, regionale e locale. Quest'anno ricorre il 20esimo anniversario della sua morte. Ne abbiamo parlato con Mario Nasone, presidente Centro Comunitario Agape, già vicepresidente nazionale del Mo.V.I. e per due mandati Presidente del Centro di Servizio per il Volontariato di Reggio Calabria.

Come hai conosciuto Luciano Tavazza e che tipo di esperienze avete condiviso?
La conoscenza è avvenuta negli anni ’70 quando la Caritas Italiana aveva “scoperto” il volontariato come fenomeno nuovo, emergente e aveva organizzato dei convegni nazionali, in particolare quello di Napoli (Cappella Cangiani) e di Sassone che avevano per la prima volta aveva mobilitato e aggregato tutta una serie di esperienze che tra di loro nemmeno si conoscevano. Il merito è stato quello anzitutto della Caritas che allora era retta da Mons. Nervo e da Mons. Pasini però accanto a loro c’era Luciano Tavazza che ho conosciuto proprio in quei contesti quando abbiamo incominciato questa riflessione su che cosa voleva dire l’esperienza del volontariato. A quei tempi anche la parola volontariato era una parola nuova. Noi con la mia associazione siamo nati nel 1968 e i termini erano diversi, apostolato per chi era credente, impegno civico e sociale e militanza per altre fedi anche più laiche e quindi la parola volontariato è stata una parola che è cominciata a circolare proprio in quegli anni e da subito Luciano Tavazza è stato un po' l’icona che ha rappresentato questo mondo nuovo che era stato in qualche modo valorizzato da queste iniziative.

La tua esperienza con Luciano poi è continuata?
Poi è successo che la Caritas italiana, dopo aver illuminato questa esperienza forte che veniva dal basso, essendo un organismo di tipo ecclesiale arrivato ad un certo punto in cui ha messo in movimento tutte queste realtà, riteneva che spettasse ai laici, alle realtà associative decidere come portare avanti soprattutto quello che è stata la prima mission fondamentale, che era quella di un volontariato che svolgesse anche un ruolo politico e quindi un ruolo di forza di cambiamento e questo ruolo ovviamente non poteva essere della Caritas in senso stretto anche se lo incoraggiava e lo sosteneva. Erano anche gli anni dei cambiamenti nel sistema del welfare, del decentramento delle competenze alle neocostituite Regioni e agli Enti locali (con il DPR 616 del 1977), si cominciava a parlare del territorio, delle comunità, era una prima riforma dell’assistenza. Ad un certo momento proprio a Roma si è deciso di mettere le basi di quello che sarebbe stato il Movimento federativo del MoV.I. Ricordo che ci trovammo un gruppetto di persone, c’era anche don Franco Monterubbianesi della Comunità di Capodarco, Vodia Cremoncini, in un bar di Roma vicino in via Palombini, struttura della caritas dove ci incontravamo all’inizio.Ne parlammo. Luciano era ancora titubante e io sono stato uno di quelli che aveva forzato di più perché vi erano molti timori a far nascere un Movimento così al buio dato che non vi era ancora una presenza in tutte le regioni d’Italia. Io dissi a Luciano che c’era bisogno che il Movimento nascesse, soprattutto ne aveva bisogno il volontariato del Sud, facciamo una scommessa!. Lui che aveva una grande fiducia in me, superiore a quelle che erano le mie capacità, ha detto sì facciamolo. Da lì con l’impegno di un gruppetto di persone è nato il Mo.V.I.,E’ proprio il caso proprio di dire da “quattro amici al bar” è iniziata quell’operazione che è diventata poi appunto il Mo.V.I. con tutto quello che è accaduto negli anni successivi.

C’è un aspetto di Luciano che più di ha impressionato o di cui conservi un vivo ricordo?
Sono diversi, innanzi tutto la sua capacità di ascolto, cioè lui era capace di grandi analisi, di grandi letture socio-politiche, ma la sua grandezza era soprattutto quella di essere attento alle persone, aveva una grande capacità di chiedere alle persone impegni e coinvolgimenti, ma anche di valorizzarle, di ascoltarle, di curarle. Come ha fatto, ad esempio, con me per tanti anni, come ha fatto con tutti gli altri, le lettere che lui mandava, anche nei momenti fuori di quella che era l’attività classica del Mo.V.I. E poi l’altra cosa il suo stakanovismo, lui era un instancabile, nessuno lo reggeva, quando noi facevamo i Comitati nazionali lui portava sempre la sua agenda di lavoro, delle sue visite. Praticamente non c’era un sabato o una domenica di tutto l’anno libera, perché lui era dovunque, lo chiamavano, soprattutto nel Mezzogiorno, non mancava mai, poteva essere anche un gruppetto di cinque persone del piccolo paesino sperduto, lui andava sempre e nei suoi week end era in giro viaggiando in cuccetta per risparmiare tempo e risorse.

Ricordi se Luciano si è distinto per capacità di innovazione e/o di visione nel contesto del volontariato?
Sì, era un grande innovatore, era innanzitutto un grande visionario perché riusciva nelle relazioni che lui ci faceva quando andavamo alle Assemblee, nei momenti forti lui riusciva a fare delle letture aggiornatissime del mondo che cambiava. Lui era molto legato a Aurelio Peccei del Club di Roma, a personalità internazionali, anche dell’ America Latina, lui aveva dei riferimenti forti, anche ecclesiali (è stato membro laico della CEI) ma anche sul piano dei movimenti, come il MLAL movimento laici america latina) su quello che accadeva. Questa capacità di lettura l’accompagnava alla creatività che lui sviluppava. Anche quando era Presidente dell’Enaoli ha portato una rivoluzione perché da ente che gestiva istituti e orfanatrofi è diventato un ente nazionale di grandissima innovazione, con le case famiglia, gli affidi, tanto che non andava smantellata era uno dei pochi enti che poi non era inutile (come si diceva a quei tempi, degli enti da sciogliere) , così si diceva a quei tempi. Lui creò risposte innovative sui minori, l’affido, la domiciliarietà, cose che oggi si fanno e che lui già allora propugnava e sosteneva, il lavoro nei quartieri, soprattutto. Con lui abbiamo iniziato, e poi si è aggiunto anche Lumia, a lavorare nelle periferie, il motto era “socializzare il territorio”, Abbiamo fatto anche dei campi del Mo.V.I. in realtà nel napoletano, anche di periferia, lui ci teneva moltissimo che il volontariato si spostasse sempre più in questi quartieri dove il bisogno e il disagio era più forte e poi ci teneva moltissimo alla promozione delle persone, all’inserimento lavorativo, alle cooperative. Coniugava le attività di volontariato con quelle attività che davano autonomia alle persone, integrazione vera. Soprattutto al Sud lui metteva sempre insieme queste l’esperienza del volontariato con la cooperazione sociale portate avanti da Felice Scalvini, Stefano Lepri e dal prof. Carlo Borzaga, perché si doveva uscire dalla logica dell’assistenza per un servizio da dare alla persona per cui il volontariato entrava nella logica più ampia di una strategia di liberazione delle persone dal bisogno anche con nuovi strumenti. Mi ricordo che si era inventato anche Il volontariato senjor, cioè dei manager che andati in pensione aiutavano i giovani a fare impresa, cose che oggi sono di grandissima attualità. I profeti sono quelli che vedono le cose prima che accadano e lui queste cose già le aveva viste e dovunque andava le sperimentava.

Che cosa ha rappresentato Tavazza per il volontariato organizzato in Italia?
Questa è stata una delle principali rivoluzioni che lui ha fatto. In quei tempi il volontariato, intanto era sconosciuto, era molto diffusa l’esperienza del volontariato singolo, della solidarietà di base, come la chiamavamo. Che era ed è ancora un’esperienza importante, però lui ha subito capito che un volontariato che vuole essere forza di cambiamento, che vuole svolgere un ruolo politico, che vuole incidere sulle politiche sociali, sulla formazione delle leggi, sugli investimenti e sulle Finanziarie non poteva essere un volontariato disperso, di singole persone brave ma doveva essere un volontariato organizzato inteso a livello di associazione. Il vantaggio è che l’associazione è una squadra che ti permette di poter svolgere più ruoli, di svolgere una serie di funzioni, non solo prestazioni dirette sui bisogni, ma anche attività di studio, di tipo culturale, di sensibilizzazione che richiedono competenze diverse. Poi l’essere insieme organizzati ti aiuta a camminare più velocemente, perché ci si incoraggia, c’è un progetto comune condiviso, c’è una vision. Oltre a questo poi le associazioni fanno rete tra di loro perché per poter interloquire con l’ente pubblico, con la politica, con le altre agenzie, Presentarsi non come singola associazione, ma come una rete che è in grado non solo numericamente, ma anche da un punto di vista qualitativo, di offrire all’interlocutore una proposta molto più forte, più motivata, più articolata e questo appunto ha permesso al volontariato soprattutto nei Comuni, nelle Regioni di diventare un interlocutore politico fondamentale. Quali sono stati i meriti maggiori della sua opera o del suo insegnamento nel volontariato? Il merito principale è stato quello di avere letteralmente scoperto il volontariato e di avere creduto in questa forza di cambiamento. Di averlo fatto passare da una fase in cui era qualcosa di sconosciuto, di clandestino, di irrilevante, perché non era minimamente considerato né dal punto di vista legislativo né dal punto di vista culturale e politico. I partiti, la stessa Chiesa, le grandi agenzie di comunicazione ci hanno impiegato anni a capire che cosa era questo fenomeno nuovo, per cui lui lo ha preso per mano e l’ha portato poi negli anni ad essere anzitutto conosciuto, poi rispettato e poi temuto, perché nel momento in cui mobilitava migliaia di persone riusciva a portare avanti delle campagne, delle battaglie. Soprattutto, il suo metodo è stato quello di avere visto come una rete realmente radicata sul territorio perché anche allora c’era molta virtualità, c’erano molti organismi che erano sulla carta che poi non c’era dietro niente, lui invece insisteva moltissimo nel dire che sul territorio se si agisce le cose cambiano, ma bisogna essere presenti, chi è accanto ai bisogni delle persone automaticamente è un interlocutore e lui questi messaggi li mandava continuamente. Assieme a questo investire nella formazione. Lui riteneva che la formazione era la gamba di cui non si poteva fare a meno per poter far camminare le idee e quindi tra le scelte di campo che indicava a tutte le federazione provinciali del Mo.V.I., la formazione era uno dei presidi che bisognava garantire. Nelle varie accezioni sia quella sui valori, sia quella tecnica, sia quella politica si investiva tantissimo, tanto è vero che chi veniva chiamato a svolgere dei ruoli, degli incarichi all’interno del Mo.V.I., anche se totalmente gratuiti, doveva prima passare attraverso dei percorsi formativi perché Tavazza diceva che chi accettava questi ruoli doveva assumersi responsabilità e mettersi sempre in discussione.

Si associa Tavazza al volontariato moderno. Per quale motivo secondo te?
Prima di Tavazza il volontariato era soprattutto un fatto assistenzialistico, consolatorio, che aveva anche delle grandi tradizioni, penso alla San Vincenzo, alle Pubbliche Assistenze, alle Misericordie, però era un volontariato che sostanzialmente non si poneva il problema di cambiare le cose, cioè era un volontariato compatibile con il sistema. Tavazza citava spesso la frase che poi era di Padre Pintacuda di Palermo “noi non siamo il giardino fiorito del Palazzo del potere”, quindi lui si innervosiva quando il volontariato veniva elogiato, ammirato, “a noi non interessa essere ammirati, vogliamo che i nostri interlocutori cambino le politiche, cambino il loro modo di essere”. Poi lui ha fatto anche il piccolo miracolo di mettere insieme tutte le teste d’uovo dei partiti nel convegno di Amalfi che ha dato una spinta alla legge nazionale quadro sul volontariato che era la prima legge che formalmente riconosceva il volontariato. Tuttavia lui anche in questo era molto lungimirante, diceva che il volontariato non aveva bisogno di avere una legge per essere riconosciuto, il volontariato si legittima da sé, la legge serve unicamente per regolamentare il rapporto con l’ente pubblico per chi vuole avere una relazione con esso. Lui avversava sia le leggi che avevano questo titolo così come tutte le proposte che in qualche modo si proponevano di mettere un cappello sul volontariato, anche per riconoscerlo, perché diceva che è la Costituzione che ci riconosce e per chi è credente c’è il Vangelo, per cui non c’è bisogno di questo tipo di attestato o altro.

Il volontariato odierno è diverso dal volontariato della fine degli anni ’90 che Tavazza vedeva nella transizione? Se sì, che cosa lo differenzia più significativamente dal volontariato della fine del secolo scorso?
Il volontariato di quegli anni era un volontariato più rivoluzionario, innanzitutto perché molto di quel volontariato è nato nel ’68. Tante esperienze sono nate nelle scuole, nelle parrocchie, nelle periferie dove una parte dei giovani e dei preti, piuttosto che cedere alla deriva, allora molto allettante delle spinte rivoluzionarie, che hanno portato anche al terrorismo o comunque alla contestazione, anche ecclesiale, all’isolamento, ci sono stati pezzi che invece hanno fatto la scelta di tradurre i valori del ’68 in un impegno concreto di cambiamento che partiva dalla propria vita. Era un po'la spiritualità di don Italo Calabrò, di don Ciotti, di don franco e don Vinicio Albanesi di Capodarco, cambiare il mondo a partire da noi stessi, condividere, assumere le fatiche degli altri e quindi la rivoluzione partiva dagli oppressi però non solo di tipo ideologico perché, dicevamo a quei tempi, la lotta alla povertà, all’emarginazione non è una tavola rotonda o un convegno che magari ci devono pure essere ma è anzitutto di sposare la causa dei poveri nella propria vita. In quegli anni i finanziamenti al volontariato erano quasi inesistenti e quindi le esperienze erano quasi tutte autogestite, vivevano di pochissime risorse, c’era molta povertà anche di mezzi, e quella è stata anche una ricchezza che ha permesso al volontariato dii avere quella autonomia, quella libertà dalla politica. Negli anni questo ha fatto maturare il volontariato, perché poi da quelle esperienze sono nate molte realtà di cooperative, di servizi più strutturati. Però allora con Luciano avvertivamo il pericolo di un volontariato che scomparisse all’interno di quello che poi è stato il Terzo settore Luciano ha sposato la causa del Terzo settore e della sua valorizzazione che trovava riferimenti anche nella Costituzione, però avvertiva già allora il pericolo che il volontariato scomparisse, che perdesse la sua peculiarità, Cosa che negli anni poi in effetti è successo per cui molte esperienze che sono nate come volontariato hanno avuto una mutazione genetica, sono diventate altro. Io ricordo che con Don Tonino Bello abbiamo fatto un convegno a Napoli e noi tutti ci siamo riconosciuti nella sua definizione che la solidarietà è una mamma con tanti figli, il volontariato è uno di questi, anzi è il figlio primogenito, Il prediletto, ma ci sono anche altri figli, bisogna stare attenti anche a non confondere e questa era la sua idea. Oggi grazie anche all’avvento dei CSV, io sono stato per sei anni Presidente del CSV di Reggio Calabria, tante cose che si facevano come Mo.V.I. a quel tempo ora li fanno i CSV. Ed è una cosa che abbiamo voluto. Tavazza nella legge sul volontariato ha voluto che si inserisse la previsione di questi Centri, perché diceva finora come MoVI lo abbiamo fatto in maniera gratuita e spontaneistico di garantire questi servizi, però è giusto che soprattutto le associazioni più piccole, dei paesi che hanno meno disponibilità economiche abbiano una struttura che li aiuti a nascere e a svilupparsi. Per cui oggi c’è molto più volontariato di prima però il fenomeno è molto più complesso, per la scelta di strutturarsi, di avviare anche servizi “pesanti” rispetto a quelli che erano i servizi più “leggeri”.

Vi è qualcosa dell’insegnamento o dell’ispirazione di Luciano Tavazza che consideri particolarmente attuale?
Io credo che l’aspetto fondamentale è quello della gratuità. Tavazza si era inventata quella definizione che poi per altro abbiamo tutti utilizzata del volontario che è «il cittadino che dopo aver adempiuto tutti i suoi compiti di lavoro, familiari, ecc. si metteva a disposizione degli altri» e questa credo che sia ancora validissima, cioè oggi in un periodo storico in cui si fa anche una grande confusione, in cui si parla di volontariato puro e non puro, in cui si dà un’etichetta di volontario a chiunque opera nel sociale, facendo un danno perché una persona che opera in una cooperativa è un professionista se tu lo consideri un volontario in qualche modo gli neghi il diritto ad avere anche una giusta retribuzione. Una cosa che diceva sempre Luciano è che nella Costituzione non si parla del diritto al volontariato, ma si parla del diritto al lavoro, si dice che la Repubblica è fondata sul lavoro non sul volontariato, e poi il valore più importante è quello della giustizia. Lui diceva che sul nostro comodino dovevamo avere due libri, la Costituzione, da una parte, e il vangelo, dall’altra, lì c’è tutto. Lui partiva sempre dalla Costituzione che però doveva essere vissuta nella quotidianità e quindi, soprattutto, credo che non vada dimenticata la sua capacità di essere sempre in sintonia con i cambiamenti. Cioè lui riusciva a leggere i fenomeni, anche nuovi, tutte le nuove forme di disagio di cui oggi parliamo, le rotture della famiglia, le separazioni, i divorzi e altri fenomeni di tipo sociale, ecc.., e l’altro messaggio forte era quello che bisognava trovarsi sempre in sintonia con il mondo giovanile. Il volontariato che non è in sintonia, che non si fa interrogare, che non è a fianco dei giovani può anche rischiare di morire. Su questo lui insisteva moltissimo, sul lavoro nelle scuole, sui progetti che non fossero solo per i volontari ma per i ragazzi come i campi estivi che facevamo in maggioranza per i giovani. La proposta del volontariato per il mondo giovanile si è negli anni un pò appannata, mentre lui era capacissimo di infiammare i ragazzi quando parlava nelle scuole, riusciva a colpirli nel cuore.

A questo proposito, avendo tu conosciuto bene Luciano cosa direbbe oggi ad un giovane intenzionato a fare volontariato per incoraggiarlo e motivarlo?
Quello che diceva anche a noi Luciano che chi fa volontariato lo fa perché vuole stare bene lui, cioè il volontariato non è un togliere qualcosa, un privarsi di qualcosa per darlo agli altri, ma è un modo di vivere, un modo di stare bene al mondo. Dove la solidarietà non è un sentimento, come diceva Rodotà ma un diritto che tutti dobbiamo in qualche modo rivendicare ed offrire, perché ognuno di noi nella sua vita sicuramente avrà dei momenti di fragilità, di difficoltà. Per un giovane l’esperienza di volontariato è una palestra per la vita. Fare volontariato significa imparare a vivere perché attraverso il volontariato - come anche nell’esperienza del servizio civile, il giovane può fare un’esperienza forte, può incontrare la sofferenza, il mondo del disagio, della fragilità. La formazione per un giovane, lui diceva, non è completa se si ferma all’istruzione formale ma è completa se avrà la possibilità di fare esperienze forti che lo aiutano a capire anzitutto quali sono le priorità nella vita, perché di fronte alla sofferenza, alla grande fragilità tu capisci quanto hai avuto dalla vita di ricchezze, di doni, di risorse e che devi in qualche modo restituire. E poi per i giovani non è da trascurare nemmeno l’aspetto associativo, che soprattutto oggi è molto attuale dato che oggi si connettono con una macchina senza essere connessi con l’altro, che vivono una forte solitudine, sia nella famiglia, che nella scuola, dove il gruppo è raro è quindi è un modo per stare insieme, anche per divertirsi, penso ai campi estivi che facevamo e che ancora oggi tanti giovani hanno la fortuna di fare e quindi ai giovani noi diciamo: “prova a fare questa esperienza, assaporando il gusto di stare assieme agli altri in modo gratuito e ricevendo soprattutto dagli altri tanto, sicuramente ti porti dentro un bagaglio di umanità, tu investi in gratuità però poi ne guadagni in umanità che poi nella tua vita ti servirà tantissimo al dà delle scelte che farai”. Tavazza poi ci teneva a dire che i valori del volontariato dovevano passare, nella politica, nelle professioni, nella famiglia cioè devono diventare il fermento che permette ad una società di cambiare, perché ripeteva spesso il concetto che non ci interessa tanto aumentare il numero di volontari ma che tutta la comunità diventi il più possibile solidale perché il vero cambiamento è questo.

Hai un aneddoto da raccontare per dare un’idea di chi era l’uomo Tavazza?
Girava l’Italia, più di un figlio è nato mentre lui era in giro per incontrare gruppi.Quando partiva con Nilla (sua moglie) siccome non si fidava della puntualità delle donne, facevano due valige. Una sua e una di Nilla per cui lui partiva per non perdere il treno, se Nilla ce la faceva lo raggiungeva. Per dire come lui era concentrato al massimo su questa sua missione.Mi viene in mente le cose che dimenticava, i cappotti, gli ombrelli, perché era tutto molto assorbito dalle cose da fare, mentre girava come una trottola. Poi una cosa che ricordo sono i seminari d’estate della Zancan a Malosco, quel suo stakanovismo, riusciva a lavorare fino alle 8 di sera, faceva la cena e poi trascorreva faceva tutta la notte per scrivere le conclusioni. Non solo a Malosco ma anche in tanti convegni in cui andavamo aveva spesso il compito di fare le sintesi e lui passava la notte a scriverle e le scriveva con tale lucidità che quando poi le leggeva difficilmente la gente non si riconosceva., Erano veramente documenti che colpivano al cuore, cioè riusciva a trovare le parole, le frasi, i ragionamenti che ti davano quella carica, quella chiarezza sulle cose da fare, su qualunque problema o fenomeno si parlasse, qualunque fosse il tema. Lui aveva questa grande capacità di valorizzare i contributi di tutti, che è rara perché sintetizzare magari i lavori di tre giorni in due paginette non era facile, ma lui riusciva a farlo. Poi aveva la capacità di essere un leader vero, un leader che riusciva veramente a coinvolgere e su questo noi lo prendevamo in giro ma lui riusciva sempre ad avere quell’affabilità, quello stile tranquillo, aveva un atteggiamento di umiltà e di sobrietà. Sono stato a casa sua molte volte, una casa semplicissima, incontravi l’essenzialità della sua vita era poi l’aspetto privato che completava il quadro dell’uomo. Aveva la sua famiglia numerosa , aveva 6 figli e riuscire a contemperare i diversi compiti è stato per lui possibile perché aveva una grande donna accanto come si dice, tra loro c’era un’unione perfetta e per me tutte le volte che ero a Roma e andavo a casa sua vivevo momenti di gioia. Infine ricordo il suo grande ottimismo, lui guardava sempre le cose in positivo e spronava tutti noi a farlo.

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