Da Reggio a Tinos: ponti di solidarietà per la nuova missione della Caritas diocesana in Grecia
Riflessioni e testimonianze dei partecipanti al “viaggio”: «Un’occasione per condividere esperienze e progettare nuovi percorsi di comunione».
Riceviamo e pubblichiamo la testimonianza di Gaetano Versace che, per un anno, ha svolto il proprio servizio civile in Caritas, nel Centro d'ascolto "Monsignor Italo Calabrò" di Archi
Parlare di sé, raccontare ciò che si vive e che si prova non è mai facile, anzi. Ma è tanto difficile quanto necessario perché aiuta a fare memoria di ciò che ci ha permesso di essere quello che siamo oggi, di rivivere emozioni importanti che hanno dato una svolta alla nostra vita. Questo è infatti il sentimento con cui mi accingo appunto a “fare memoria”. Dopo aver ricevuto la laurea in Scienze del Servizio Sociale presso l’Università degli Studi di Messina, dopo aver sostenuto e superato le prove per l’abilitazione all’esercizio della professione di Assistente Sociale mi ritrovai con un’insistente domanda nel cuore e nella mente : “ e adesso?”
Così nella scarsità delle opportunità lavorative e nel dubbio del “cosa fare” una volta raggiunto l’obiettivo della laurea, mi tornò in mente un desiderio passato: l’idea di fare un anno di servizio civile. Da sempre , fin da piccolo sentivo che questa esperienza “fosse mia” , sentivo di doverla fare.
In seguito ai miei studi volti al sociale, inevitabilmente ero convinto di fare domanda in un ente che sicuramente operasse appunto nel terzo settore. Mi sembrava quasi di dover scegliere qualcosa che desse “maggior luce” al mio curriculum vitae. Invece, su consiglio inaspettato del mio parroco decisi di presentare la mia domanda alla Caritas Diocesana, anche per conciliare la voglia di fare questa esperienza con l’impegno e l’appartenenza alla Chiesa da cattolico praticante e impegnato in Azione Cattolica. Così iniziai questo percorso e dopo i vari step di presentazione della domanda e soprattutto di selezione diocesana e regionale, inaspettatamente arrivò la notizia : “Selezionato”. Io ed altri otto giovani come me iniziammo questa straordinaria avventura. Dopo la gioia dei primi momenti e di soddisfazione mi accorsi di essere stato assegnato alla sede di servizio forse a me meno congeniale.Infatti, prima delle selezioni si da la possibilità ai giovani, per prassi, di visitare le sedi in cui poi verranno attuati i progetti di servizio civile in Caritas. Visitammo così il Centro di Ascolto “ Mons. Italo Calabrò” di Archi gestito dalle Suore Francescane Alcantarine, Casa Cassibile e Casa Corigliano. Tra le tre sedi la mia preferenza andava verso il Centro di Ascolto di Archi in quanto già inserito nell’ambiente “francescano” in seguito a varie esperienze con i frati minori di Calabria ed essendo educatori ACR in parrocchia da anni la consideravo l’opzione migliore e soprattutto più facile. Ma così non fu. Iniziai con tanta paura la mia esperienza di servizio presso la casa per disabili mentali “Casa Corigliano” sita in Villa San Giovanni e Opera Segno della Caritas diocesana di Reggio Calabria. Insomma mi sono ritrovato in una casa di “pazzi”. Si, proprio cosi, i cosiddetti pazzi erano i destinatari del mio servizio. Iniziai ad andare ogni giorno da loro e insieme agli operatori e alla collega, giovane come me in servizio civile, ogni giorno dedicavamo il nostro tempo a loro. I primi tempi , credo di non esagerare, se dico che furono traumatici. Non riuscivo ad avere con gli ospiti alcun tipo di rapporto, provavo “schifo” nel vedere alcune abitudini, alcuni loro atteggiamenti. Arrivai al punto di avere incubi notturni in cui i protagonisti erano proprio loro. Avevo paura perfino, a volte di rivolgere loro la parola, pensavo a qualcosa da poter fare con loro ma subito venivo bloccato dal timore di sbagliare e dalla possibile reazione che loro, i “pazzi” potessero avere. Mi sono scontrato con la realtà della vita, delle situazioni che pur facendo tutti gli studi del caso, pur studiando una vita intera, non si può conoscere e capire totalmente. Dopo questo primo periodo di “crisi” però mi accorsi che queste persone con cui ogni giorno condividevo 5 ore del mio tempo, una volta tornato a casa e alla mia quotidianità affollavano i miei pensieri. Nelle mie giornate lontano da Casa Corigliano mi accorgevo di preoccuparmi già della giornata successiva sul cosa fare con loro, di cosa potesse avere bisogno Totò, Ciccio o Massimo, di come poter fare per far reagire Gaetano, di come gestire Vincenzo, di come far parlare Nino. Insomma queste persone dal farmi paura iniziavano ad essere parte integrante della mia vita non solo nel “servizio” ma nella mia vita a 360°. Tutto ciò divenne ancor più evidente quando un ospite, in seguito ad un operazione chirurgica e ad una breve degenza in ospedale morì. Nei turni in ospedale con lui, nell’imboccarlo durante i pasti, nel “coccolarlo” nei suoi momenti di stanchezza capì quanto lui, e gli altri erano diventati importanti per me. Quando Nino morì mi ritrovai a scegliere l’ultimo abito da fargli indossare nel suo armadio, mi ritrovai a piangere in un ascensore e mentre piangevo mi domandavo se fosse possibile veramente piangere per una persona conosciuta solo da alcuni mesi, per uno sconosciuto, per uno considerato da tutti “pazzo”. Lì ho capito realmente che questa esperienza di servizio civile mi ha stravolto l’esistenza, mi ha aperto gli occhi, mi ha fatto incontrare prima di tutto PERSONE. Potrei fare un lungo elenco delle cose fatte con loro, con gli operatori, per la casa ma non è questo ciò che ha reso questa esperienza così forte. L’ingrediente principale è stato ed è aver intessuto relazioni con delle persone speciali e che mai avresti pensato di vivere. Aver cresimato Massimo, aver incrociato sguardi, aver visto in quegli occhi, in quel volto il Volto di Cristo. Non è un banalità, o un pensiero di circostanza, è la realtà. In questa casa, io ho visto realmente quel Gesù in cui ho sempre creduto. L’ ho visto e toccato realmente in questo anno ancor di più di quanto l’abbia sentito in milioni di attività ed incontri ecclesiali.
Questo anno di servizio civile è stato condiviso con un gruppo di giovani e con dei formatori che come me si sono messi in gioco , con cui sono nate amicizie stabili, con cui dopo ormai quattro anni circa, dalla fine dell’esperienza, continua un rapporto di stima, di scambio, di fiducia che raramente si sperimenta nella vita di ogni giorno.
Potrei dire che l’anno di servizio civile ha dato carne a tutti gli studi fatti, ha dato volto a quel Gesù che in parrocchia cercavo sempre di presentare ai ragazzi, ha consolidato ciò che forse da sempre sento essere la mia scelta professionale e di vita: “ Essere utile agli altri”. Esempio di ciò è l’esperienza vissuta in questo ultimo anno e mezzo, con i minori stranieri non accompagnati. Ho avuto la possibilità, infatti, di vivere un’altra sconvolgente esperienza di servizio al prossimo e di confronto con me stesso. Lavorando presso il Centro di Prima Accoglienza per Minori Stranieri sito a Bagnara Calabra con l’Associazione CE. RE. SO. Ho sperimentato la bellezza della diversità, del confronto, dell’ intercultura, della pace.
Quando ho iniziato questa nuova avventura, forte dell’esperienza fatta a Casa Corigliano , pensavo ,stupidamente, di essere ormai un operatore del sociale “esperto”. Dicevo tra me e me : “ dopo un ‘esperienza così forte di servizio, di formazione, di conoscenza e consapevolezza di me e degli altri, non ho nulla da temere”. Invece non è stato proprio così. Il 24 Luglio del 2016 24 ragazzi minori stranieri, i famosi “migranti” , varcarono per la prima volta la soglia del centro di accoglienza. In questi sguardi impauriti e tristi, in quella stazza imponente ma che manifestava bisogno di aiuto concreto, in quelle cicatrici sul corpo, in quei volti scavati io mi senti impotente. Tutte le mie sovrastrutture mentali vennero annientate a primo colpo. Col tempo, conoscendoli, ascoltando le loro storie di sofferenza , di tortura, di sogni ho capito che nessuno è realmente straniero su questa terra. Ho sperimentato con loro , camminando con loro per stara la sensazione di essere osservati costantemente, dell’ironia facile, del pregiudizio. Ma per cosa? Solo perché “neri” solo perché , a causa di qualche criminale, considerati tutti delinquenti? Ho toccato con mano il senso della difficoltà per noi, abituati all’egoismo e a pensare “ognuno per se” , di guardare oltre le apparenze e soprattutto oltre il pregiudizio. Una delle cose che più mi ha lasciato senza parole è stata sentire un ragazzo dire “ camminando per strada mi sento dire spesso nero, quasi come se fosse un offesa. Ma se io ti dico bianco, tu ti offendi?” In questa affermazione c’è tutta la sintesi di quello che è il nostro pregiudizio. I ragazzi sono entrati nella mia quotidianità come tanti fratelli da custodire, da accompagnare ma mai da “ trattenere” . Un amico mi disse un giorno” Ricorda che il tuo è un compito che custodisce ma mai trattiene”, ed è così. Tanti ragazzi adesso, che hanno vissuto presso il centro di Bagnara, saranno sparsi per l’Italia o l’ Europa, con pochissimi ogni tanto scambio qualche notizia, ma so per certo che in ciascuno di loro c’è un pezzo di noi, un pezzo di strada condivisa, un pezzo di speranza ridonata. Un grande lavoro è stato fatto dallo staff del Ce.Re.So. a Bagnara , in quanto inizialmente i ragazzi sono stati accolti con molti pregiudizi e molte proteste dalla cittadinanza. Dopo qualche mese molte persone hanno iniziato ad invitare i ragazzi nelle proprie case, alle feste, a partecipare alla vita attiva della città. Tre di questi nostri ragazzi vivono all’interno di famiglie che, seppur maggiorenni ormai, pur di farli rimanere a Bagnara, li hanno accolti nelle loro case “adottandoli” . Nell’accompagnare i ragazzi in queste famiglie ho sperimentato la bellezza e la generosità dell’animo umano quando abbandona pregiudizi e preconcetti. Anche qui potrei fare un elenco delle mille iniziative, dei mille risultati raggiunti , dei tanti inserimenti in varie realtà fatti a favore dei ragazzi, della professionalità dello staff del Ce.Re.So., del bene di cui i nostri ragazzi godono, ma la cosa più importante che tengo a sottolineare è che con questa esperienza ho avuto ancor più consapevolezza che dietro ogni numero, ogni pregiudizio, ogni macchinazione politica, ogni frase fatta, ogni strumentalizzazione ci sono delle persone con una storia, con un vissuto, con delle speranze e sofferenze. Degli uomini e delle donne in cerca di pace. L’ animo umano, nel senso più alto della sua concezione , non ha colore. “Siamo fatti della stessa sostanza”.
Potrei entrare ancor di più nei dettagli e raccontare tanti e tanti episodi di entrambe le esperienze ma mi sento solo di aggiungere questa citazione, che ormai sempre mi accompagna, di un sacerdote santo che in questa diocesi di Reggio- Bova ha creduto fermamente in quello che diceva, senza mai fermarsi alle omelie della domenica ma facendosi “omelia vivente” don Italo Calabrò. Il quale ha consegnato a me e consegna ogni giorno a chi decide di spendersi per gli altri e ad ogni credente queste tre semplici e chiare parole:
“ Nessuno escluso, mai!”Riflessioni e testimonianze dei partecipanti al “viaggio”: «Un’occasione per condividere esperienze e progettare nuovi percorsi di comunione».
Il responsabile del servizio diocesano spiega la funzione educativa dell’importante strumento attivato alcuni anni fa nella diocesi reggina-bovese.
Venusia Aversa, volontaria del presidio di solidarietà nato su iniziativa della parrocchia di Campo Calabro e della Caritas, spiega la mission dell’iniziativa.
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