Avvenire di Calabria

Sono passati esattamente 20 anni dal 20 marzo 1999: in una Basilica Cattredrale gremita, monsignor Vittorio Mondello ordinò vescovo don Salvatore Nunnari

Nunnari: «I miei poveri mi educarono all’episcopato»

Davide Imeneo

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Mercoledì l’arcivescovo Salvatore Nunnari festeggerà il ventesimo anniversario dall’ordinazione episcopale. Lo abbiamo raggiunto per sapere con quale stato d’animo vivrà questo giorno così importante. La nostra intervista è iniziata col ricordo di quel pomeriggio del 1999: «La carica emotiva nel salutare la mia gente, si è rafforzata nel vedere la mia città: la cattedrale era piena, hanno dovuto persino aprire l’auditorium accanto e mettere dei televisori sulla strada. La mia Reggio salutava il vescovo che era stato un prete della strada. La gente che ho incontrato durante i 35 anni di servizio parrocchiale mi ha accompagnato, dopo avermi educato, a diventare vescovo».

Durante la celebrazione c’era un’altra persona emozionata quanto lei: l’arcivescovo Mondello. Cosa le ha detto quando ha saputo che era stato nominato arcivescovo?

Quel 19 gennaio, come ogni mattina, sono andato da lui. Mi ricordo che non mi accolse stando seduto, ma in piedi. Mi abbracciò e mi disse: «Il Papa ti ha fatto vescovo». Poi si fermò, i suoi e i miei occhi si riempirono di lacrime, ci guardammo in faccia e io gli dissi: «Non mi sento di lasciare la mia Chiesa, la mia gente, il mio vescovo. Perché dovrei andare?». E lui mi risponde: «Il Papa ti manda, obbedisci».

La chiamata di Giovanni Paolo II arrivò dopo tanti anni spesi al Soccorso, una parrocchia con la quale lei è cresciuto anche dal punto di vista sacerdotale...

Una parrocchia che mi ha dato tanto: la gente semplice, gli operai, i giovani. Che meraviglia! Quella comunità mi ha educato. Certo, non dimenticherò mai quegli anni di servizio che mi prepararono a un altro servizio più difficile e più generoso, da vescovo.

Dopo la nomina di don Italo Calabrò a vicario generale, lei divenne assistente spirituale dei portatori della Vara della Madonna della Consolazione. Cosa ha significato stare “sotto” la Vara?

Quando don Italo mi consegnò il campanello, che ancora conservo, mi affidò circa 400 portatori della Vara, che ho amato pur nella complessità del loro comportamento: non sempre era facile guidarli ma è stato bello sentirli miei fratelli nella fede mariana. Quando arrivò la nomina tanta gente si domandò se avessi abbandonato la Madonna e la Vara: non l’ho mai abbandonata, e quegli uomini li porto nel cuore.

Forse sotto la Vara qualche problema c’è stato, ma si è sempre risolto col grido «Evviva Maria!»

Oltre il ministero di parroco e di assistente, lei si è speso per tutta la diocesi e per tutta la città, promuovendo anche un impegno sociale e politico. Perché lo ha fatto?

Il Vangelo promuove l’uomo, e lo proietta in una fede incarnata: non dimentichiamolo. Furono gli anni terribili dei Moti di Reggio. La città era prostrata, offesa, umiliata. Una Reggio che ha visto molti di noi preti accanto alla sofferenza della gente. All’inganno di politici che hanno tradito la città. Forse qualche cosa, devo riconoscerlo, l’ho esagerata, gridando l’ingiustizia di una classe politica inadeguata e indegna. Uomini della politica che, più che al servizio, si erano dedicati alla ricerca di una carriera fatta in oltraggio alla verità e calpestando la giustizia.

Le ragioni che lei ha raccontato sono ancora attuali ed urgenti nella città dei Bronzi. Secondo lei di quale impegno ha bisogno la nostra città?

Di una coscienza civile che affronti i problemi guardando avanti, di una società e di media che aiutino a creare coscienze libere e forti. Di creare un popolo cosciente, responsabile, che legga la sua storia di ieri con la gioia del servizio nell’oggi. Allora fu rubata la speranza, oggi bisogna ridare la speranza, impegnandosi ciascuno nel proprio lavoro, nel proprio impegno sociale per costruire il domani.

Lei lasciò lo Stretto per andare in Irpinia come pastore della Arcidiocesi di Sant’Angelo dei Lombardi–Conza–Nusco– Bisaccia. Anche quella terra era ferita dal punto di vista sociale. Che iniziative intraprese?

Erano passati decenni dal 23 novembre 1980, il terremoto causò 2mila morti. Mancava di tutto, anche se vi era stato un impegno per il rilancio dell’industria. Quel popolo ha visto mancare una generazione di giovani: circa 60 sono morti nella mia Sant’Angelo. In Irpinia mancavano alcune strutture: ho subito aperto la casa per le ragazze madri con 25 posti. Allora, queste donne venivano invitate dalla famiglia ad abortire o andarsene di casa. Arrivarono le suore Figlie della Sapienza per prendersi cura di queste giovani che, a differenza di quelle che abortiscono, meritano rispetto perché nonostante l’errore commesso, salvavano una vita. Altro che amico degli abortisti! Questo vescovo ha creato le case perché ogni vita salvata è un dono di Dio, un segno – come dice Tagore – che Dio ci ama ancora.

Nel 2004 il ritorno in Calabria: il Papa la nominò arcivescovo di Cosenza. Come può definire l’esperienza che ha vissuto nella diocesi bruzia?

Cosenza diventò mia sposa. E sentii, anche con difficoltà e ‘controtestimonianze’ di preti e di monaci, che non potevo fermarmi: ho abbracciato la mia sposa e per lei ho donato la mia vita. Ho chiesto al Signore di darmi la forza di sentire questo popolo come mia gente. Ho sofferto, ho abbracciato una croce che non ho cercato – la croce si accoglie, non si cerca – tanto che il mio ministero lo leggo così: mitria e croce. Un vescovo crocifisso e appassionato della sua gente e della sua Storia.

Non sono mancate le prove e le sofferenze. Come le ha affrontate?

Dove c’è l’uomo c’è l’imperfezione, ma anche la possibilità di costruire il bene. Continuo a guardare in faccia questa gente che ha bisogno di cristiani coraggiosi. Ecco la mia missione di vescovo: non tradire i nostri giovani che sono passione e tormento della mia vita. Nel testamento scriverò: «Vorrei avere un’altra vita per donarla solo ai giovani».

Nel 2013 diventò presidente dei vescovi calabresi. Pubblicò alcuni documenti nei quali la Chiesa calabrese prese ulteriormente le distanze dalla ‘ndrangheta, anticipò le “parole forti” di papa Francesco che, a Cassano, parlò di scomunica dei mafiosi...

Con i miei fratelli vescovi abbiamo emanato dei documenti in cui le parole contro la mafia sono e restano di una chiarezza unica. Combattere la mafia non significa solamente fare azioni antimafia ma atti che minano le radici di una mafia che vorrebbe essere riconosciuta anche dalla Chiesa. La mafia non rappresenta la cultura calabrese ma una minoranza di persone che colpisce le fondamenta della nostra storia e della nostra civiltà. I calabresi sono gente buona che – come diceva Corrado Alvaro – «vuole essere parlata».

Da alcuni anni ha concluso il ministero pastorale alla guida della diocesi di Cosenza. Come vive il suo ministero di arcivescovo emerito?

Un vescovo non va mai davvero in pensione, la paternità appartiene alla storia di ciascuno di noi. Un padre è sempre padre. Anche dopo essersi messo da parte, la sua paternità si esprime in un servizio silenzioso, sofferente, nascosto dimenticato. Ma il cuore del Padre, anche dalla mia piccola stanza, è aperto a tutti: la mia porta è aperta ai miei giovani, a tutte le persone. Non si può smettere di essere padre.

Qual è il ricordo più bello di questi venti anni di episcopato?

I poveri. I poveri offesi da un’istituzione ecclesiale – il ‘Papa Giovanni’ – i poveri che sono stati la ricchezza della mia vita. Quando mi è capitato di entrare in una casa di borghesi, sono uscito sempre più povero, dai tuguri e da situazioni di povertà grande ne sono uscito ricco di umanità. I ricordi più belli sono quelli in cui ho potuto dare una mano, un sorriso a chi – offeso dalla vita – aspettava che qualcuno si ricordasse di lui. Il vescovo è l’uomo che non deve dimenticare nessuno e deve incontrare l’ultimo, perché non può non avere un padre. Ecco la mia missione, ecco la mia volontà a restare a Cosenza e non tornare a Reggio: lì il Signore mi ha mandato ad annunciare il Vangelo e a soccorrere i poveri. Da padre mai in pensione continuo ad annunciare il Vangelo e portarlo nel cuore dei poveri, dove diventa solidarietà e carità per tutti.

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