Avvenire di Calabria

Mafiosi, professionisti e pezzi dello Stato hanno collaborato per rafforzare a dismisura il potere dei clan

Oltre gli arresti. La gente per bene torni a occupare la Calabria

Davide Imeneo e Federico Minniti

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Gli oltre 300 arresti di ieri notte non rappresentano soltanto un colpo ferale alla ‘ndrangheta di Vibo Valentia. In fondo, Nicola Gratteri lo ha detto: «Leggete le 13.500 pagine dell’ordinanza e capirete di più. Sempre se vorrete farlo». Dietro a quei nomi, molti dei quali «ingombranti» in virtù del ruolo che ricoprono, c’è un reticolo di relazioni che hanno irrobustito la ‘ndrangheta e, in particolare, il clan Mancuso. Un’ascesa, quella della cosca di Limbadi, iniziata all’indomani delle stragi di mafia: fu il vibonese ad ospitare il summit tra Cosa Nostra e ‘ndrangheta che segnò l’avvio della «fase due», quella dell’infiltrazione sistemica nella Pubblica Amministrazione.

L’operazione “Rinascita-Scott” non fa che cristallizzare le teorie investigative che si rincorrono da anni: è passato mezzo secolo - e lo ha ribadito ieri Gratteri - dalla nascita della “Santa”, il super livello del Crimine calabrese. Eppure, negli ultimi cinquant’anni, raramente si è guardato al fenomeno ‘ndranghetista sotto questa lente: mafiosi, professionisti e pezzi dello Stato hanno collaborato per rafforzare a dismisura il potere dei clan. Da «rozzi pastori» come venivano etichettati sino a pochi anni fa alla holding criminale più potente d’Europa.
Il grande connettore di questi mondi era la massoneria deviata: la provincia di Vibo Valentia, giusto per fare un esempio, è uno dei territori a più alta densità massonica d’Italia. Lo dicono le fonti ufficiali. E più di un interrogativo andrebbe posto.

Non è un caso che la maxi-operazione, condotta da circa tremila uomini in tutta Italia e all’Estero, si chiami “Rinascita”. Un’indagine che sintetizza - in prima istanza - la morte di una parte della società calabrese, quella connivente o quanto meno rassegnata alla presenza asfissiante della ‘ndrangheta. Muoiono anche gli anticorpi: l’arresto di un colonnello dei carabinieri o del comandante dei vigli urbani di Pizzo, infatti, rappresentano un unicum. Così come la sicurezza di Luigi Mancuso di poter raggirare le leggi attraverso dei funzionari infedeli capaci di aggiustare processi o ricorsi al Tar. Muore la narrazione di una Calabria ostaggio dei “piedipiatti”.
Muore la credibilità della politica, in modo bipartisan, con carriere costruite dai clan. L’aria che si respira, in queste ore, in Calabria è simile a quella del Sepolcro. Sembra la fine di tutto. Eppure, Gratteri e i suoi hanno voluto chiamare questa indagine “Rinascita”. Il Procuratore non usa mezzi termini: «Impegnatevi in politica, nel volontariato, scendete nelle piazze: rioccupate gli spazi che abbiamo liberato». Riprendetevi quello che è vostro. Di tutti quei calabresi costretti a emigrare perché senza speranza. L’indagine, anticipata di 24 ore a causa della fuga delle notizie che stavano agevolando la possibile latitanza del mammasantissima Luigi Mancuso, cade in un periodo storico delicatissimo per la Calabria. Fa poco più di un mese si tornerà alle urne, il 26 gennaio, e il teatrino della politica sinora non è riuscita a sciogliere i nodi dei candidati.

Rinascere vuol dire trovare il coraggio di cambiare. Gratteri si appella agli «educatori» conscio che la repressione senza la formazione delle coscienze è ben poca cosa. La maxi-operazione di ieri fissa l’ennesimo ultimo grado per la Calabria e i calabresi: sta alla coscienza collettiva sapersi interrogare e determinare. Dopo la pagina di liberazione, adesso, serve scrivere nuove di partecipazione.

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