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Massimo Calvi al suo primo romanzo: abbiamo intervistato il caporedattore all’ufficio centrale e editorialista di Avvenire. L'autore spiega come «la mia montagna è un luogo del cuore e dell’anima, è il bello che mi accompagna e che porto sempre con me».
Un uomo ormai alla fine dei suoi giorni chiede di essere portato a trascorrere il tempo che gli resta di fronte alla montagna a cui è legato. Cosa cerca? E cosa rappresenta la montagna? Dodici giorni (più uno) in cui la contemplazione e la memoria danno origine a un viaggio alla ricerca di sé stessi.
Attraverso una successione di quadri pennellati come acquerelli, il lettore è accompagnato a conoscere la bellezza di una natura in cui la montagna rappresenta appartenenza e approdo. In ogni pagina c’è la meraviglia incontrata nella vita che trasforma ogni cammino in un ritorno a casa.
Un romanzo sorprendente, originale, profondo e allo stesso tempo lieve, nel quale magnifiche descrizioni naturali si alternano ad avventure di giovinezza, incontri di intensa umanità, momenti di preghiera. A emergere è uno sguardo nuovo sulla montagna: non meta di conquista, non simbolo di escapismo individualista, ma spazio del cuore all'origine del desiderio di libertà.
Per ritrovare l’amore ricevuto e donato, per respirare a pieni polmoni l’ossigeno che fa cadere ogni barriera e ogni limite fisico, per aprire la via che ricompone anima e corpo, pacifica, fa rinascere. Un libro da infilare nello zaino prima di partire. O da leggere quando la montagna manca come l’aria.
Massimo Calvi è caporedattore all’ufficio centrale e editorialista di Avvenire. Sposato, padre di tre figli, ha scritto saggi a tema economico e sociale: Operatore non profit (Mondadori, 1998), Sorella Banca (Monti, 2000), Capire la crisi (Rubbettino, 2012). È alla sua prima “escursione” letteraria. Lo abbiamo intervistato.
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Non è stata una vera decisione, si è trattato piuttosto di un bisogno. Da tempo cullavo l’idea di restituire parte di quella meraviglia che ho incontrato nella vita e che è riconducibile a un luogo in particolare, un paese di montagna che mi ha visto crescere e al quale sono legato. Mi riferisco alla bellezza della natura, alla bontà delle relazioni, alla poesia di momenti semplici e di avventure spensierate. Ma si trattava di un’idea che mi faceva compagnia. Poi, durante il lockdown, in quello che per tanti è stata come una reclusione, soprattutto per chi abita in città, ho capito quanto mi mancava quel luogo, quanto avrei voluto essere lì e in nessun altro posto. La pandemia, tra le tante cose, ha insegnato che tutti abbiamo bisogno di un luogo al quale appartenere, e quanto sia importante ritrovarlo. Quella situazione estrema mi ha spinto ad immedesimarmi in una persona che, al termine del suo tempo, chiede di essere portato e messo a sedere di fronte alla “sua” montagna.
La mia montagna è un luogo del cuore e dell’anima, è il bello che mi accompagna e che porto sempre con me. La montagna di cui parlo nel libro è un luogo fisico, ma anche metafisico. Ho voluto scrivere un racconto che è una dichiarazione d’amore verso i luoghi che ci hanno formati come persone, che ci appartengono e sono diventati una parte di noi. La montagna di cui parlo è, in fin dei conti, quella “mappa” interiore fatta di tutta la bellezza che abbiamo incontrato nella vita, è la memoria dell’infinito che desideriamo incontrare ogni volta che ci mettiamo in cammino, è un modo per parlare della madre, del padre, della vita familiare, della fede, del rapporto con Dio. Per un altro la montagna può essere un mare, un fiume, un borgo, una compagnia…
La lettura mi ha fatto una grandissima compagnia da piccolo. Alle elementari ero spesso a casa malato, con la bronchite, a causa dell’aria inquinata della periferia di Milano e della città-fabbrica dove vivevo. In quelle lunghe giornate, senza cellulari, né tablet, né televisione, leggevo, leggevo e leggevo. Forse ho imparato a scrivere così, leggendo… Poi con il lavoro di giornalista, per anni in redazione economica ad Avvenire e oggi all’ufficio centrale, ho dovuto leggere soprattutto saggi. Tra lavoro e famiglia il tempo è poco, seleziono moltissimo i libri: cerco di leggere solo capolavori, classici o contemporanei. Non mi piace la lettura come forma di evasione o di intrattenimento, meglio un film, una buona serie tv, o andare in mezzo alla natura e mettersi a leggere ciò che ci circonda.
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Le avventure, gli incontri e le meditazioni di cui si compone il libro, in tutto 85 capitoletti molto brevi, partono da un vissuto personale, ma il racconto è veramente universale. L’uomo che guardava la montagna parla di una persona alla fine dei suoi giorni, ma è un atto d’amore verso la vita. La cosa che sto scoprendo è che chi lo legge non resta indifferente e sente il bisogno di farmi sapere cosa ha smosso in lui o in lei, quali ricordi e quali emozioni. Molti mi hanno scritto per confidarmi qual è la loro “montagna”, dove si trova il loro luogo dell’anima, di che cosa è fatta la bellezza che hanno incontrato e che desiderano ritrovare. Mi fa molto piacere, perché significa che scrivere ha avuto un senso.
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Un raccontare e un raccontarsi, un porsi dinanzi ad una persona o ad una situazione
Si rinnova l’appuntamento con il settimanale diocesano dell’arcidiocesi di Reggio Calabria – Bova