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Papa Leone XIV lo ha ricordato nei giorni scorsi: «Ogni codice che non tenga conto della persona è destinato a generare scarti»
Piazza Duomo, Reggio Calabria, mezzogiorno di maggio. Un gruppo di liceali in gita riprende con il telefono Tony Marino, detto anche Tony Rolling Stone: trenta secondi dopo il filmato è su Instagram, un algoritmo aggiunge trascrizione, colonna sonora e titolo ammiccante, la clip diventa virale in dieci minuti. Nessuno – né i ragazzi né la piattaforma – si chiede se Tony abbia dato il consenso. In quell’istante, nel cuore della nostra città, capisci che la posta in gioco non è soltanto la velocità con cui scorrono i contenuti, ma chi ne custodisce il senso.
Gli algoritmi, oggi, ricordano meglio di noi. La funzione “Memory” di Meta AI accumula gusti, abitudini e debolezze dell’utente, mentre l’opt-out predisposto dalla società resta poco visibile e di fatto inefficace. In un contesto simile, il giornalista non può limitarsi al fact-checking: deve presidiare la fiducia, tracciare la filiera della notizia, includendo i modelli generativi che potrebbero averla manipolata. Il “Rome Call for AI Ethics” – proposto dalla Pontificia Accademia per la vita – propone dignità, inclusione e trasparenza come criteri guida. Papa Leone XIV, dialogando con i partecipanti al summit vaticano sull’intelligenza artificiale, ha invocato un trattato mondiale che difenda il lavoro umano dall’automazione spietata, proseguendo il percorso avviato da Francesco, che nella 59ª Giornata delle Comunicazioni Sociali ha invitato a condividere la speranza con mitezza per conseguire una comunicazione pienamente umana.
Sul fronte civile, l’AI Act europeo – in vigore dal 2 febbraio 2025 – qualifica come “a rischio inaccettabile” i sistemi che minano la dignità personale e dispone l’obbligo di etichettare i contenuti sintetici: le redazioni diventano quindi responsabili se diffondono un video creato dall’AI senza segnalarlo. Il cortocircuito della personalizzazione si avverte anche qui. Entro la fine di maggio Meta ha concesso agli utenti europei la possibilità di opporsi all’uso dei propri post per addestrare modelli generativi, ma l’informazione è passata quasi sotto silenzio.
Quanti hanno esercitato questo diritto? L’assenza di dati pubblici è già una notizia: la trasparenza, spesso, si misura nei silenzi. Le elezioni europee di primavera hanno confermato un’altra fragilità: l’impennata di deepfake circolati durante la campagna. A smascherarli ha contribuito l’European Digital Media Observatory, coordinando smentite in tempo reale. In Italia la legge sul cyberbullismo, aggiornata nel 2024, ora contempla esplicitamente la falsificazione di immagini e voci, ma la norma, da sola, non basta: serve un’alleanza tra giornali, scuole e comunità ecclesiali per formare cittadini capaci di riconoscere l’inganno. Il divario digitale continua a penalizzare la Calabria: secondo l’ultimo report Istat, appena il diciannove per cento degli over-65 possiede competenze di base.
Se l’intelligenza artificiale spinge verso una personalizzazione estrema, gli anziani rischiano di restare l’“altra metà” non raggiunta dall’informazione digitale. Il giornalista-custode diventa allora un ponte: porta la rete nel territorio, ascolta le paure di chi resta offline, traduce “in dialetto” i passaggi più tecnici dei documenti europei. La custodia può assumere la forma di una filigrana che riconosce l’origine umana di un testo – un logo che segnala la supervisione redazionale sui testi prodotti o assistiti da AI – o di un archivio condiviso, in cui si conservano log cifrati di prompt e revisioni, pronti a essere esibiti se qualcuno contesta la veridicità di un pezzo. Può diventare un laboratorio permanente in cui università e start-up locali sperimentano strumenti di analisi forense su audio e video.
Può incarnarsi in percorsi di formazione continua: insieme alla tessera professionale, ogni redattore riceve un kit di alfabetizzazione all’intelligenza artificiale, comprensivo delle linee guida dell’AI Act e della Rome Call for Ai Ethics. Può infine tradursi in una pastorale digitale che integra psicologi e operatori pastorali nei flussi social, trasformando i canali social in sportello di ascolto per le vittime di hate-speech amplificato da bot. In questo quadro, il giornalista non è più soltanto il “cane da guardia” della democrazia. Nell’era delle reti neurali diventa custode di relazioni autentiche.
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Papa Leo XIV lo ha ricordato nei giorni scorsi: «Ogni codice che non tenga conto della persona è destinato a generare scarti». Custodire significa fermarsi, discernere, restituire senso. Significa, per un giornalista, narrare con la speranza e non con l’hype. Se la rivoluzione industriale diede vita alla Rerum novarum, quella digitale attende parole profetiche capaci di parlare di algoritmo e di umanità nello stesso respiro. Quando, in una futura piazza ancora più connessa, un drone trasmetterà in 8K la festa della Madonna della Consolazione, il criterio decisivo non sarà l’effetto speciale, ma la domanda se quel racconto avvicini le persone alla verità e alla bellezza oppure le confonda. In quel bivio, la custodia offerta dal giornalismo resterà insostituibile.
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