Avvenire di Calabria

È lui che per primo ha iniziato a parlare di una pop theology, una teologia popolare, a portata di smartphone

Staglianò: «Come evangelizzare i giovani dell’epoca debole»

Redazione Web

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Musica e giovani. Un connubio inscindibile nella società moderna, che pare stia suggerendo nuove piste di evangelizzazione sulle quali la Chiesa sta iniziando a interrogarsi, sta provando a organizzarsi.
 
Fra tutti emerge l’impegno quasi una profezia pastorale del vescovo di Noto in Sicilia, il calabrese monsignor Antonio Staglianò, che ha provato a inquadrare il fenomeno anche dal punto di vista culturale e teologico. È lui che per primo ha iniziato a parlare di una pop theology, una teologia popolare, giocando sulle parole “pop” e teologia. Ne ha parlato con Parola di Vita e nell’ampia intervista trasmessa da Radio Jobel InBlu.
 
Lei è chiamato in diverse parti d’Italia per incontrare giovani studenti e parlare loro. Si può davvero evangelizzare attraverso le “canzonette”?
Se per evangelizzazione intendiamo annunciare l’umanità bella e buona di Gesù, annunciarla, soprattutto, ai giovani che vivono in questa società e vivono questa condizione culturale, io credo di sì. Sono convinto che oggi  giovani e ragazzi che sono sempre connessi, ascoltano volentieri la musica come accompagnamento della loro vita quotidiana; sono sintonizzati continuamente su queste “canzonette” di cui digeriscono abbondantemente i contenuti, magari anche in maniera indiretta. Perciò, chi vuole annunciare di Gesù, che è poi annunciare il Vangelo, che Gesù è il Figlio di Dio, penso che può imboccare anche questa via. Lui stesso è stato dentro la vicenda degli esseri umani, con un’umanità singolare, c’è stato come amore per tutti, ha dato consolazione e pace… Chi vuole fare questo, deve poter interloquire con quegli aspetti di umanità che vengono comunicati anche attraverso le canzonette. È in fondo una scelta, per instaurare un dialogo con una dialettica nuova. Non si tratta di vedere cosa dicono le canzonette di Gesù, ma che cosa dicono sull’umanità di oggi. 
 
Quindi dare un senso nuovo ad un messaggio che forse nasce con altre finalità?
Noi non evangelizziamo le canzonette, né mai lo vogliamo fare. Noi annunciamo, ripeto, Gesù mediando questo annuncio attraverso un referente simbolico, che può essere il testo e la musica di queste canzonette.
 
Quindi, predicazione e musica connubio perfetto per trasmettere valori profondi e parlare ai giovani! Lei è convinto che la classica comunicazione cristiana non riesce più a raggiungere i giovani?
Anzitutto, dobbiamo riconoscere la crisi di un certo cattolicesimo convenzionale e dobbiamo riconoscere che la predicazione cristiana contenuta nell’omelia domenicale, non può essere e non deve essere l’unica forma per comunicare il Vangelo. Le forme della comunicazione cristiana sono tante; le persone vengono “convocate” devono e vogliono vivere una forte esperienza. È necessario parlare al cuore alla mente. La crisi della nostra società super secolarizzata è nata dal fatto che ha messo in cantina il cattolicesimo e la fede rapportandosi con i giovani; la crisi nella chiesa è nata da quando essi non vengono più al tempio, ma si ritrovano negli stadi, seguono come modelli i calciatori e le star. La riflessione critica da fare è che i nostri interlocutori, cioè quelli che dovrebbero essere i destinatari delle nostre predicazioni, non ci sono nelle nostre chiese. È inutile annunciare a chi non c’è e quando li incontriamo corriamo il rischio di costruire, sulla loro pelle, domande di senso che loro non si pongono più o  che si pongono in maniera diversa. Dobbiamo riconoscere che sono rimasti pochi ad ascoltare, dobbiamo essere coscienti del fatto che bisogna ripartire da qui.
 
Possiamo allora immaginare questo tentativo di pop theology come la voglia di recuperare quell’umanità che Gesù non ha mai scartato ? E cioè andare verso giovani che oggi sembrano così lontani?
Sicuramente sì, perché il tentativo di andarli a cercare dove si trovano, più che recuperarli per portarli in Chiesa è quello di incarnare il messaggio cristiano. Nulla di nuovo in fondo. Così ha fatto Cristo, così apostoli, santi e missionari nelle varie epoche e forme. Oggi loro stanno, anzia abitano, i social network, facebook, Instagram e You Tube; qui chattano, parlano e ascoltano musica. Basta fare una ricerca sulle canzoni più cliccate, che ricevono migliaia di like, voti e giudizi per capire il loro orientamento, quali sono i sentimenti e le risposte che cercano, danno e provocano. Se vogliamo sapere che cosa sperano i giovani della vita, se temono il fallimento, sognano ancora qualcosa, se hanno fiducia, bisogna, andare a leggere cosa scrivono dopo aver ascoltato una canzonetta, come reagiscono a uno stimolo provocato da un cantante o da un loro modello.
 
I contenuti sono allora quelli di sempre: la forza della pop theology sta in nuovo registro comunicativo. Un metodo molto apprezzato dai giovani, ma un po’ meno dai tradizionalisti?
Non saprei. Potrei rispondere a obiezioni specifiche, ma non a chiacchiericcio. La vera questione è che lo stesso papa Francesco spinge per una Chiesa in uscita, capace di rompere tutti gli schemi, anche nella predicazione. Un tempo, per uscire fuori dagli schemi, si diceva che l’omelia andava preparata con la Bibbia in una mano e nell’altra il giornale (lo sosteneva il teologo Karl Barth); ma, ai nostri giorni, i giovani i giornali non li leggono e, quindi, dobbiamo recuperare un linguaggio nuovo.
 
Forse, è necessario trovare maggiore coraggio nello sperimentare nuove strade e strategie?
Sicuramente, non possiamo restare ancora nel recinto a coccolare l’unica pecorella che è rimasta mentre le novantanove sono fuori, allo sbaraglio, bombombardate e disorientate  dalla società dell’ipermercato. Ci sono giovani che seguono miraggi e pifferai magici, giovani in braccio a narciso che seguono finte sirene di felicità. In questo tempo, definito l’epoca delle passioni tristi, non è la strategia migliore che vince, ma l’andare incontro all’altro, parlare al suo cuore e alla sua testa.  Se i giovani hanno abbandonato la Chiesa è perché , forse, la Chiesa ha abbandonato loro; forse, la Chiesa con le sue forme ordinarie di trasmissione della fede, non riesce a far incontrare più i giovani con Gesù di Nazareth! C’è un’eclissi del cristianesimo domestico e dobbiamo riconoscere che si è spezzata la catena di trasmissione della fede, come dice papa Francesco nell’Evangeli Gaudium. I giovani, purtroppo, possono vivere serenamente a prescindere dalla religione e dalla fede. Questa scollatura è un fenomeno culturale che dovrebbe sollecitarci ad affrontare pastoralmente prima la grande questione giovanile che quella culturale.
 
Quindi come occorrerebbe operare come Chiesa?
Bisognerebbe capire in quali forme sociali e culturali sono immersi i giovani. Quali sono le forme che forgiano i loro sentimenti, le emozioni. Sono burattini dentro un teatro-ipermercato che li etero-dirige. Allora, la Chiesa mentre lavora nell’annunciare il Vangelo col kerygma, nell’annuncio attraverso la catechesi, la liturgia e la carità, deve poter anche elaborare un grande progetto culturale, volto a indagare su quali siano le forme che ci allontanano dalle donne e dagli uomini del nostro tempo. Tanto, se non lo facciamo noi, la “canzonetta” di Sanremo ce lo dice.
 
Ci faccia capire meglio...
Pensiamo alla canzone di Gabbani, la quale ha vinto il Festival lo corso anno, “Occidentalis Karma”. L’autore tenta di spiegare che il karma (pensiero dominante) del nostro essere è diventare “tuttologi del web, uomini dell’umanità virtuale, gente dalle risposte facili e delle domande inutili... e, comunque vada “panta rei”, tutto passa... Questa “canzonetta” di Gabbani critica le religioni, ad esempio, il buddishmo, così come con “Amen”, in conclusione, ha criticato il cattolicesimo: “e allora avanti popolo/che spera in un miracolo/elaboriamo il lutto con un Amen/dal ricco in look ascetico/al povero di spirito/ dimentichiamo tutto con un Amen/ ... Gesù s’è fatto agnostico/ i killer si convertono/ qualcuno è già in odor di santità/ la folla in coda negli store dell’inutilità/l’offerta è già finita amici andate in pace...
Sono accuse e critiche che, oggi hanno la dignità popolare, ma che nei secoli scorsi avevano come testimonial grandi filosofi come Marx, Feuerbach o Freud e Nietzsche.
 
Il Sinodo si è concluso con l’impegno della Chiesa di mettersi in ascolto dei giovani...
La Chiesa deve operare su se stessa, come dice il documento finale del sinodo dei Vescovi, non solo per rendersi più credibile sulla scena di questo mondo, ma anche deve operare una riforma radicale convertemdosi all’ascolto dei giovani e al loro accompagnamento. I giovani, ai  nostri giorni, sono attrezzati dal punto di vista culturale e artistico, ma fanno fatica a discernere. Perciò, il Sinodo ha insistito molto su questa necessità di convertire anche le tante forme della pastorale giovanile presenti nella parrocchie e nella formazione dei giovani seminaristi. Mi pare che sia una mappa piuttosto globale, in cui l’attività della Chiesa e le sue iniziative pastorali potranno essere più efficaci nell’incontro con i giovani. Da qui, si apre la questione di fondo: nell’ipotesi che riusciamo a parlare ai giovani, essi avranno l’orecchio per ascoltarci? Hanno voglia di ascoltarci oppure sono distratti dalle offerte zuccherose del paese dei balocchi in cui la Chiesa non riesce a fare nulla? Allora, mentre si creano questi sentieri, occorre che la Chiesa cattolica elabori un’iniziativa culturale di ampio respiro, volto a mostrare nuovi percorsi. Il Vangelo è gioia, come dice papa Francesco, noi questa operazione la dobbiamo fare. Così prima di proporgli di incontrare Gesù dobbiamo aiutarli a dotarsi di quel desiderio di incontrarlo. La Chiesa che è impegnata ad annunciare il Vangelo, che vuole bene ai giovani e che vuole che crescano in umanità, non può non imboccare questo sentiero.
 
Un aspetto che, però, non può riguardare solo la Chiesa in senso stretto, ma anche gli adulti che troppo spesso non sono presenti o poco disponibili a educare e accompagnare i giovani.
Quando papa Francesco parla di riforma e di conversione a tutto campo, parla proprio di questo. Se noi non riusciamo a ottenere cristiani adulti nella fede capaci per linguaggio e per segni di vita, per testimonianza operosa nella carità, capaci di dimostrare che la loro umanità è trasformata da Gesù e dal suo incontro, è chiaro che ogni discorso fatto ai giovani eogni iniziativa rischia di essere svuotata e superficiale.  I giovani si accorgono quando uno “chiacchiera”, perché le parole vere sono una cosa, le “chiacchiere”, invece, avviliscono e annoiano. Abbiamo bisogno di adulti seri, testimoni, altrimenti il nostro discorso sui giovani sarà un discorso di retorica. Avremo scritto un nuovo bel documento, ma non ci servirà a nulla. 

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