Avvenire di Calabria

La Freccia del Sud, il treno da Palermo a Torino, all’altezza della stazione di Gioia Tauro deraglia spezzandosi in più punti. L’impatto provoca sei vittime e settantasette feriti

22 luglio 1970, la Strage di Gioia Tauro scuote l’Italia

Un disastro voluto, causato da una bomba posizionata sui binari della ferrovia come dichiarò vent'anni dopo il pentito di 'ndrangheta, Giacomo Lauro

Redazione Web

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Sono i giorni della contestazione e della violenza politica. Reggio Calabria rivendica il diritto di essere capoluogo di regione, con ogni mezzo, a ogni costo. E la destra, saldamente radicata in città, soffia sul fuoco della protesta. Una ribellione estrema, durata a lungo, nel corso della quale accadono fatti gravi. Come il 22 luglio 1970, quando la Freccia del Sud, il treno da Palermo a Torino, all’altezza della stazione di Gioia Tauro deraglia spezzandosi in più punti. L’impatto provoca sei vittime e settantasette feriti.

Il caso, considerato disastro colposo, sembra definitivamente archiviato. Viene riaperto molti anni dopo grazie alle dichiarazioni di un pentito nell’ambito di una indagine sulla ‘ndrangheta calabrese che squarcia il velo di bugie, omissioni e depistaggi sul deragliamento del Treno del Sole. Quello strano incidente ferroviario, avvenuto durante la rivolta di Reggio Calabria, in un territorio di mafie potenti e pervasive, è un atto doloso, riconducibile agli ambienti dell’estrema destra eversiva.

Un disastro voluto, causato da una bomba posizionata sui binari della ferrovia. Dice il magistrato Guido Salvini: «Reggio Calabria e la Calabria erano un terreno fertile per l’eversione di destra e sono state una sorta di laboratorio di prova di azioni eversive che sono avvenute anche in altre parti d’Italia a cominciare ovviamente da piazza Fontana». E aggiunge: «Per questo episodio, per Gioia Tauro è dunque disvelata, sia pur dopo trent’anni, la verità». Una verità che giunge tardiva, per la tardività delle notizie, e la deviazione delle indagini.

L’attentato di Gioia Tauro entra così tristemente a far parte della lunga lista di stragi e depistaggi che caratterizzano gli anni della strategia della tensione e costellano di lutti la storia d’Italia. Conclude Tonino Perna, docente di Sociologia economica all’Università di Messina: «Una piccola storia locale si aggancia alla storia nazionale, perché serve una Reggio nera da contrapporre a una Milano rossa, serve una Reggio in guerra con morti e feriti per dire che ci vuole l’uomo forte che risolve il problema di un paese ingovernabile».

 
Il fatto correlato: la morte misteriosa dei cinque anarchici della baracca.
 
C'è un gruppo di attivisti reggini, noto come  "Gli anarchici della baracca", dal posto pittoresco e fatiscente in cui, studiavano e discutevano e abitavano, che riguardo alla strage guarda più lontano della polizia. Gianni Aricò, Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Celso e Annalise Borth, peraltro testimoni a favore di Pietro Valpreda nell'inchiesta su piazza Fontana, hanno osservato da vicino la rivolta di Reggio documentando, con le macchine fotografiche, la presenza nelle barricate di neofascisti di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale.
«Abbiamo scoperto cose che faranno tremare l'Italia», dicevano. Nella baracca avevano raccolto del materiale sul disastro della Freccia del Sud, documenti delicati che era il caso di mostrare a un amico avvocato, Edoardo Di Giovanni, autore della controinchiesta sull'attentato di Milano. Li aspettava a Roma, dove i ragazzi erano diretti nella loro Mini minor carica di fascicoli, il 26 settembre del 1970, dove, sull'autostrada tra Ferentino e Frosinone, a 58 chilometri da Roma, si schiantano contro un camion parcheggiato sul ciglio della strada, coi fari spenti. I magistrati di Frosinone concludono che si è trattato di una disgrazia, eppure lo stato in cui viene ritrovata la Mini minor fa pensare alla presenza di un terzo veicolo. Un mezzo che potrebbe aver speronato l'auto dei ragazzi spingendola contro il rimorchio.
Nel 1993 nell’ambito di una maxi inchiesta “Olimpia 1” sulla ‘Ndrangheta calabrese, il pentito Giacomo Lauro, dichiarò davanti al sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Vincenzo Macrì, di aver saputo nel 1979, in carcere, che era stato il neofascista Vito Silverini, a piazzare la bomba di Gioia Tauro su mandato del Comitato d'azione Reggio Capoluogo. Nel luglio 1995 vengono indagati per concorso in strage l’armatore Amedeo Matacena senior, Angelo Calafiore, ex-consigliere provinciale missino di Reggio, Fortunato Aloi e Renato Meduri. Tutti vengono prosciolti. Lauro  rivela che quello di Gioia Tauro sarebbe stato un attentato e che il materiale lo avrebbe procurato lui. La carica di esplosivo era stata sistemata sui binari, era esplosa prima del passaggio del convoglio, formando un fosso profondo diversi metri e causandone il deragliamento. Dominici aggiunse che nell'ambiente della malavita calabrese, della morte dei quattro ragazzi su parlava come di un omicidio. Dopo quarantasette anni i nomi di chi commissionò la strage restano ignoti. Fu uno dei tanti funesti episodio che hanno caratterizzato il periodo storico della strategia della tensione. Quanto alla tragica morte di quei quattro brillanti ventenni una sola cosa è certa: il camion parcheggiato era di proprietà di un’azienda del ‘principe nero’, Junio Valerio Borghese.

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