Roma, al via il secondo ciclo dei Dialoghi di San Policarpo all’Appio Claudio
Si rinnova per il secondo anno il ciclo de “I Dialoghi di San Policarpo”, presso
Mimmo Gangemi, apprezzato scrittore reggino, torna in libreria. Noto al grande pubblico per la trasposizione televisiva del suo “Giudice Meschino” andato in onda su Rai 1, è tornato alle origini sul suo istinto narrativo. Lo abbiamo intervistato.
Il suo ultimo libro “Il Popolo di mezzo” si torna a parlare di «partenze verso l’ignoto». Quanto c’è di attuale rispetto al nuovo esodo dei calabresi lontano dalla propria terra?
Ne Il popolo di mezzo racconto l’emigrazione verso l’America che toccò ai nostri antenati ai primi del Novecento. Racconto quell’idea, che fu rivoluzionaria, di poter deviare la rotta di un destino che sembrava destinato a ripetersi uguale a quello delle generazioni precedenti, in un tempo uguale e immutabile. Molto diversa è l’emigrazione attuale. Se ne vanno i giovani, ed è il peggiore impoverimento che si possa verificare. Costruiscono altrove il futuro, indotti anche dal pensiero che quaggiù sia impossibile realizzarlo. È un triste epilogo. Cresceranno i paesi fantasma, saremo sempre più abbandonati a noi stessi e la Calabria da terra di sconfitti – dove esserlo, sconfitti, è uno stato dal quale si può risorgere – diventerà terra di vinti con nulla più da poter opporre al declino.
Lei ha provato a raccontare la Calabria tenendola fuori dagli stereotipi. A volte c’è la sensazione che ci si voglia, per forza, “sporchi, brutti e cattivi”. Lei cosa ne pensa?
Le poche voci che oltrepassano il Pollino, quelle troppo microfonate, hanno creato della Calabria un’immagine distorta, che va molto oltre i demeriti reali che essa ha. E L’Italia, sulla scorta di quelle esternazioni che troppo spesso sono di convenienza personale, ci ha pesato, giudicato e condannato. Certo, abbiamo le nostre colpe e viviamo fianco a fianco con brutture che avvelenano la vita, la ’ndrangheta su tutte, ma qui resistono valori umani che altrove si vanno disperdendo o si sono già dispersi, quali il senso di famiglia, la solidarietà, l’accoglienza. Non sono però disposti a riconoscercelo. È che torna utile all’animo ritenere che ci siano altri rispetto ai quali sentirsi migliori. Ma non è davvero così.
Che tempo è stato per la sua penna, quello del Coronavirus?
Per lunghi anni mi sono sdoppiato tra il mestiere di ingegnere e lo scrittore. Ha finito per prevalere lo scrittore e oggi mi ripropongo ingegnere solo per staccare la spina, per disintossicarmi dal troppo scrivere. La pandemia, che ci ha costretti dentro e tanto dolore ha causato e continua a causare, ha spostato molto nel mio modo di approcciare la quotidianità. Ho colto la caduca fragilità che ci coinvolge tutti, mentre l’uomo non cede di inseguire le glorie effimere. E l’idea di provvisorietà e l’osservazione degli inutili affanni sporchi di terra mi ha preso per mano nella scrittura conducendomi per rivoli inimmaginabili prima e, nel maggiore tempo libero derivato dalle restrizioni, nei miei scritti ho scavato più nel profondo, ho affrontato temi esistenziali finora rimasti ai margini.
Hai mai avuto l’idea di raccontare - attraverso un suo libro - la Chiesa reggina e calabrese?
In realtà, la Chiesa compare abbastanza spesso nei miei romanzi – sebbene mai da primo attore. Succede perché provengo da una famiglia molto religiosa. Mio nonno paterno, raccontato ne La signora di Ellis Island, era devotissimo alla Madonna del Carmine e fino all’ultimo dei suoi giorni ebbe la certezza incrollabile di essere stato da Lei miracolato per l’ingresso in America nel 1902. Ottenne la grazia del suo secondogenito che fu prete. Io stesso ho un’infanzia da chierichetto in un paesino alle pendici dell’Aspromonte. Ecco quindi che la Chiesa appartiene ai miei ricordi migliori, agli anni immortali. Ma non mi è mai sorto l’istinto narrativo di renderla protagonista in un romanzo. Tuttavia, per il futuro, la Divina Provvidenza, chissà…?
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