Avvenire di Calabria

Come vivere bene la paternità? Seppure non esista un libretto delle istruzioni, si possono applicare diversi consigli di ordine pratico

La “follia” della paternità, un tempo “sprecato” che vale oro: emozioni e consigli

I suggerimenti arrivando all'esperienza diretta di chi si sta cimentando in questa avventura e da uno psicologo che segue le famiglie

di Autori Vari

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Come vivere bene la paternità? Seppure non esista un libretto delle istruzioni, si possono applicare diversi consigli di ordine pratico. I suggerimenti arrivando all'esperienza diretta di chi si sta cimentando in questa avventura e da uno psicologo che segue da anni genitori e figli.

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L'esperienza della paternità e i consigli su come essere un buon punto di riferimento

di Gianni Trudu * - Chi appartiene alla mia generazione ha conosciuto la famiglia “patriarcale”, numerosa e spesso allargata a nonni ma anche zii non sposatisi. I successivi profondi cambiamenti sociali e culturali hanno riconfigurato la famiglia che è divenuta “nucleare”, composta dai genitori e, perlopiù, uno o due figli.

In tempi più recenti, anche a causa delle separazioni coniugali, la famiglia è divenuta “monoparentale”, composta da un solo genitore, in genere la madre e, anche qui, uno o due figli. Dalle famiglie monoparentali scaturiscono quelle “ricomposte”. Sono famiglie in cui almeno uno dei due coniugi ha avuto un’esperienza matrimoniale conclusa e, nella nuova unione, porta i figli avuti nella precedente famiglia.

Dal padre centrale al padre marginale

Nel mutamento sociale e culturale durato decenni, la figura del padre ha vissuto e subìto notevoli cambiamenti. Da centrale e “indiscutibile”, come nella famiglia patriarcale, la figura del padre è stata riposizionata.

Nei casi di separazione coniugale conflittuale, rispetto il rapporto con i figli, il padre spesso ha finito per essere relegato, o autorelegarsi, in posizione periferica, se non marginale. Tutto ciò ha comportato notevoli cambiamenti psicologici nei rapporti familiari e, in particolare, nelle diverse configurazioni relazionali: padri/figli, patrigni/figliastri, figli/figliastri.

Anche per retaggi culturali fondati sul “legame di sangue”, la figura del padre, posta profondamente in discussione, è andata in crisi causando disorientamento sia nel padre che nei figli e figliastri.

Innumerevoli sono gli interrogativi che si pongono le diverse figure familiari. Questioni di carattere soprattutto emotivo, affettivo, educativo di non facile soluzione, che richiedono la definizione di nuovi e più avanzati equilibri personali e familiari.


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Dal padre biologico al padre psicologico

Per provare ad uscire dal groviglio, al padre tocca fare un “salto psicologico”, notevole ma imprescindibile. Dovrebbe passare da una concezione di sé puramente, se non esclusivamente, procreativa, ad una ridefinizione della propria identità per cui si è padri in quanto capaci di paternità.

La paternità la si può esprimere nelle forme più elevate nei confronti anche di figli non procreati. Per chi professa la religione cattolica, san Giuseppe ne è il più elevato esempio. È padre chi esprime paternità. Punto.

I bisogni dei figli e le figure genitoriali

Un figlio quanto più è piccolo tanto più ha bisogno di figure accuditive significative che gli forniscano amorevolmente gli strumenti necessari per renderlo autonomo e saper affrontare il mondo. Il bambino ha bisogno di un padre e di una madre.

Ha bisogno che fra le due figure vi sia complementarietà. Da ciò discende che la figura paterna e materna, nel rispetto delle loro diversità, si confrontino costantemente in un dialogo proficuo per “il bene” del figlio.

La figura paterna possiede una sua specificità che non consiste nell’essere la “controfigura” della madre come accade ai padri che, smarriti il ruolo e funzione, sono apostrofati “mammo”.

Ripensare il padre

I figli, le figlie hanno bisogno di paternità, a prescindere dalla configurazione della famiglia. C’è urgente bisogno di una riflessione profonda, allargata al vasto pubblico, riguardo la figura del padre e la paternità. Ce lo chiedono i figli con la loro sofferenza e spesso attraverso comportamenti, singoli o di gruppo, al limite o devianti. Purtroppo, nel breve termine, non si colgono segnali riguardo l’auspicata riflessione.

* psicologo


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La testimonianza di Giorgio, papà da tre anni

di Giorgio Sottilotta - “Papà”, “papinooo”… a tre anni dalla nascita di Francesco, essere chiamato in questo modo non fa più “strano” come qualche anno addietro. Eppure, se a livello nominale tutto sembra normale, acquisito, ovvio, sul piano concreto è tutta un’altra storia.

Qualche giorno fa, Brigida, mia moglie, ha avuto una bella idea, non così scontata nell’era degli smartphone: stampare alcune foto di Francesco per creare un album. Guardiamo le fotografie, carichi di amore, ripensando ad un passato prossimo che oggi mette a soqquadro una casa. Mi vedo, dunque, in queste foto e ripenso alla “follia” della paternità. Già, una follia!

È una follia il pensiero della stessa generazione, folle la mente che dà per scontato il miracolo della nascita di una persona; è una follia il pensiero di poter custodire una vita, di mettere l’esistenza di un altro prima della tua; è una follia prendersi la piena responsabilità di un “estraneo”, di qualcuno che fa capolino nella tua vita di punto in bianco, di (intendiamoci) un perfetto sconosciuto.

La paternità (e la genitorialità, in generale), dunque, non può che essere una vera e propria follia. Un assurdo e, se ci pensiamo bene, un paradosso nella società individualista, in cui “io” diventa il mio “dio”, le mie esigenze i miei comandamenti. E allora, cosa vuol dire “diventare” padre al giorno d’oggi? Beh, non lo so.

La follia, compresa quella della paternità, è per definizione ciò che non accetta definizioni, ciò che eccede qualsiasi concetto che pretenda di darne una spiegazione onnicomprensiva: la follia è imprevedibile! Quello che però so è che non è per niente semplice.

Non sono poche le volte in cui mi sento sballottato tra le tante scadenze lavorative, la pianificazione didattica, la preparazione delle lezioni di filosofia e di storia, il servizio in parrocchia e i vari ed eventuali imprevisti… e poi… nel momento in cui pensi di poterti ritagliare un momento per sbrigare queste faccende o per fermarti un attimo ecco che… “Papinoooo!”.


PER APPROFONDIRE: La paternità nella fede, consigli su come essere cristianamente da esempio


A volte lo guardi e gli chiedi pazienza, di aspettare qualche minuto, e magari provi a spiegargli che in quel momento non puoi non fare quello che stai facendo… ma è tutto inutile! Follia (torna ancora) pensare che mollerà la presa sulla base di spiegazioni utili solo, e non sempre, se stai parlando con un adulto.

A quel punto non rimane che fare il contrario rispetto a quello che la “ragione strumentale” (la razionalità, tutta contemporanea, finalizzata all’utile) propone: si gioca! E così mappe concettuali, approfondimenti, programmazioni, relazioni ecc., lasciano spazio a castelli, salvataggi improbabili di fronte a immaginari edifici in fiamme, retate della polizia o missioni condotte dagli eroi di turno (e qui mi chiedo: perché devo sempre fare io la parte del cattivo che finisce dietro le sbarre?).

Insomma, sarò ripetitivo, ma cos’è questa se non pura follia, tempo in-utile, azione senza scopo, spazio stravolto. Ci penso e ci ripenso a questa audace follia, la paternità, che ogni giorno mi conduce a sempre nuovi esercizi di realtà.

A scuola: il bello di essere Clark Kant

di Federico Minniti - Primo incontro scuolafamiglia. Diciassette mamme, un solo papà. «Vi prego di andare piano perché devo prendere appunti altrimenti chi la sente a mia moglie…» dice un ironico quarantenne in prima fila.

Il rapporto 17 a 1 è reale e, senza generalizzare, il mondo della scuola primaria tende ad ancorarsi al rapporto maestri (perlopiù maestre a dire il vero!) e mamme. E i papà? Spesso si vedono scappare all’ingresso e all’uscita per lasciare o recuperare i propri pargoli. In quei momenti, così come durante le recite scolastiche, sono i più emozionati della famiglia.

Il “distacco” casa-scuola è il primo passaggio che indica ai papà che stanno crescendo - fatto tutt’altro che scontato per la generazione adulta attuale! - per cui nei successi e nei fallimenti scolastici spesso rivedono sé stessi. Uno specchiarsi che, talvolta, può diventare un limite.

Gli zaini troppo pesanti e i compiti per casa eccessivi sono un tema assai caro nei cortili, a volte eccessivamente caro col rischio di perdere di vista la grande “partita” formativa che si stanno giocando i loro figli.

Ovviamente non è sempre così: il colloquio più bello del primo quadrimestre a cui ho partecipato è stato proprio con un papà. Una condivisione senza schermature, col racconto del momento che stava attraverso la figlia, frutto di una bella scelta d’amore - l’adozione - che però comporta tante cautele educative.

I papà che tornano a essere Clark Kent e svestono i panni di Superman sono quelli che fanno il più bel gesto da supereroi per il presente (e il futuro) dei propri figli.

Non è facile, specialmente per quanti vivono la dimensione della disabilità del proprio bambino: il concetto di performance schiaccia le fragilità, le attese (e le pretese) annullano la concreta possibilità che un bimbo deve avere il diritto di cadere per imparare a rialzarsi.

Però, non me ne vogliano le mamme, un altro aneddoto premia il coraggio di non essere un “papà alfa”: una delle poche volte che ho sentito dire a un genitore «abbiamo sbagliato noi, il bambino non c’entra», l’ha fatto un papà.

Un insegnamento che va oltre la didattica: non siamo infallibili e dirsi che sbagliamo educa i nostri figli. E pure tanto.

L'esempio di San Giuseppe raccontato nella «Patris corde»

di Domenico Nucara * - Nel considerare la figura di San Giuseppe emerge, quale tratto caratteristico della sua personalità, il silenzio, l’esser persona che, con incondizionata discrezione e nel nascondimento, si pone al servizio del grande atto d’amore della Trinità: l’Incarnazione del Figlio di Dio.

Ma cos’è questo silenzio? A cosa si può paragonare, visto che non vi è una sola parola nei Vangeli pronunciata dal falegname di Nazareth? Il silenzio di Giuseppe non è incapacità dialogica, né un tentativo di rifuggire la realtà isolandosi, ma è dono di grazia che lega la sua persona al mistero della paternità di Dio in vista della sua vocazione: Ignazio di Antiochia, nella lettera ai magnesi, meditando sul rapporto che unisce Padre e Figlio nel Mistero, afferma: “Il Verbo eterno del Padre procede dal silenzio”.

Tommaso d’Aquino assicura che “una missione eccezionale affidata da Dio ad una persona richiede in lei una santità e una dignità proporzionata” (Somma Teologica, III, q. 7, a. 9): in Giuseppe il dono di una paternità dato in pienezza, come partecipazione alla stessa paternità di Dio, “Silenzio” dal quale è generata la Parola, mostra come la sua silenziosa missione si intreccia al mistero di quel Bambino che ha bisogno, in quanto uomo, di essere guidato, custodito, “generato” nel suo addentrarsi nei sentieri della storia.

Può essere significativa la presentazione di una “icona” nata dall’esperienza mistica della serva di Dio Maria di Gesù di Ágreda, religiosa spagnola del XVII secolo: nella sua monumentale opera “La Mistica Città di Dio”, parlando della nascita del Bambin Gesù, la religiosa disse che, appena nato, Gesù fu posto nelle braccia di Giuseppe.

In quel momento il neonato aprì i suoi occhi fissando quelli del falegname di Nazaret: l’aver ricevuto dal bambino quello sguardo carico di un’irresistibile potenza d’amore, “ferì” il cuore di Giuseppe che consumò la sua vita amando e servendo quel Dio bambino che lo aveva “folgorato”.

Lo sposo della Vergine Maria non è, quindi, una persona che si pone all’ “esterno” della vita del Figlio di Dio; non è solamente il tutore di un bambino che limita la sua presenza all’assistenza fattiva: Giuseppe è colui che vive la propria esistenza in rapporto a Gesù realizzandola come esistenza paterna. Con cuore di padre, appunto!

Egli si lascia interpellare da quella “Parola” fatta Bambino e ad essa risponde con un silenzio “generativo” che è piena dedizione capace di lasciare umilmente spazio al Verbo di Dio affinché, custodendolo, abbia il primato nella sua vita e nella storia.

Sotto questo profilo san Giuseppe, secondo quanto insegnato da san Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica “Redemptoris Custos”, è l’uomo che vive la preminenza della vita interiore, quale condizione piena per vivere dinamicamente l’amore nei riguardi di quel Figlio, che, pur essendo di natura divina, ha avuto bisogno di una presenza che gli facesse sperimentare il calore dell’amore paterno e fosse capace di offrire tutta la sua esistenza, obbedendo, così, al progetto universale di Dio diventando, a sua volta, servo dell’intero disegno salvifico (Francesco, Patris corde, 1), custode e protettore dell’eredità di Cristo che è la Chiesa.

* Teologo

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