Avvenire di Calabria

La paternità nella fede si sviluppa partendo dalle fragilità

La riflessione di don Nino Pangallo, direttore della Caritas diocesana di Reggio Calabria - Bova

Antonino Pangallo

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La miriade di sensazioni provate la mattina di sabato, durante l’annuncio del nostro nuovo vescovo, si ricompongono quando alzo gli occhi: il crocifisso sovrasta la cattedra episcopale. Sulle pareti gli stemmi dei pastori ritmano i passi della nostra Chiesa. Uno dopo l’altro i pastori si susseguono, segno della paternità di Dio per il suo popolo. Monsignor Morosini ha speso le sue energie guidando i nostri passi ed ora passa il testimone. Ed ogni pastore è sempre ai piedi dell’Agnello immolato, divenuto Pastore. Vorrei fermare l’attenzione sul rapporto tra fragilità e responsabilità ecclesiale e lo faccio in tre passaggi: il messaggio alla diocesi di monsignor Morrone; alcune suggestioni dalla Patris corde; l’arte del restauratore.

La prima suggestione la trovo tra le righe del messaggio inviatoci dal vescovo eletto. Scrive: «In quell’uomo, simbolo dell’umanità bisognosa di salute, di salvezza, anch’io mi sono rispecchiato ed in me, da 38 anni prete nella Chiesa di Dio, oggi ho sentito risuonare la parola di Gesù: “Vuoi guarire?”. Certo Signore! E allora: “Alzati e cammina”». Mi sembra particolarmente significativo che il nuovo ministero a cui si sente chiamato monsignor Morrone sia accostato all’esperienza della guarigione alla piscina di Betzaetà. Ritornano le parole: «Vuoi guarire», «Alzati». Ci si prende cura solo se si sperimenta la guarigione. «È un’esortazione per me e che sento anche per ciascuno di voi. Ecco fratelli e sorelle, la nostra vita ha bisogno sempre di questa parola di Gesù che ci rimette in piedi ridandoci fiducia, scommettendo su ciascuno di noi settanta volte sette oltre e dentro le no- stre fragilità, per camminare insieme, in comunione fraterna, dietro di Lui. C’è sempre in ogni chiamata di Dio una sproporzione tra la responsabilità affidataci dalla Sua misericordia e la nostra pochezza, credo lo sentiate anche voi».

La seconda suggestione la prendo dalla lettera su san Giuseppe, Patris corde, di Papa Francesco. Giuseppe è padre nella tenerezza: «La storia della salvezza si compie ...attraverso le nostre debolezze. Troppe volte pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e nonostante la nostra debolezza”. Giuseppe è padre nell’accoglienza: “Tante volte, nella nostra vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La nostra prima reazione è spesso di delusione e ribellione. Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia». Giuseppe è padre dal coraggio creativo: «Anche la nostra vita a volte sembra in balia dei poteri forti, ma il Vangelo ci dice che ciò che conta, Dio riesce sempre a salvarlo, a condizione che usiamo lo stesso coraggio creativo del carpentiere di Nazareth, il quale sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza». Ecco come San Giuseppe ha imparato la paternità a partire dalla fragilità.

La terza suggestione proviene da un articolo dal titolo «Restaurare le anime» di don Filippo Morlacchi, sacerdote romano, oggi fidei donum a Gerusalemme. L’autore accosta l’arte del restauratore al ministero della paternità spirituale. Vi ho trovato tanta luce per il servizio del prendersi cura in Caritas e, credo, nella Chiesa. Si restaura ciò che è unico e non può essere sostituito. Si restaura ciò che ha una storia, ciò che è consumato dal tempo e che è segnato dal passato. Al restauratore è richiesto un profondo rispetto dell’esistente e un’attenzione completa e minuziosa. Ciò che si restaura è molto spesso fragile e va trattato con massima delicatezza. Il restauratore inizia l’impresa con l’incrollabile fiducia di poter rimettere insieme anche i cocci più rovinati e apparentemente inservibili. Il lavoro di restauro esige un’infinita pazienza. Il restauratore deve usare anche una certa energia ed esercitare una misurata pressione per rimettere in sesto tutti i frammenti. Per mettere mano ad un restauro bisogna anticipare con la mente e con il cuore l’integrità originaria e perduta. In Giappone è praticata l’arte di riparare con l’oro le porcellane infrante: «Le linee di frattura, ricomposte, vengono così evidenziate e contemporaneamente nobilitate. Nulla è rotto definitivamente. Tutto può essere rimesso in sesto. Le ferite, divenute cicatrici, abbelliscono l’insieme, lo caratterizzano e lo rendono ancor più speciale». Inizia una nuova tappa del cammino. Con il lettuccio sulle spalle, alziamoci e andiamo.

* direttore Caritas Reggio Calabria-Bova

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