Avvenire di Calabria

Covid-19 ed europeismo: rivendichiamo la nostra «casa»

L'editoriale del professore Daniele Cananzi (Isesp): cosa vuol dire oggi essere europeisti?

Daniele Cananzi *

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Essere europeista non può e non deve significare difendere l’Unione a prescindere. Essere europeista significa pensare che l’Unione è un modello sociale, economico, politico, culturale; che l’Unione rappresenta il modo di rimanere legati al proprio passato ma nell’unico modo in cui questo è possibile, proiettandolo nel futuro.

Questa breve premessa per inquadrare le ragioni che lasciano guardare e analizzare la situazione attuale, la cronaca di questi ultimi giorni, con la dovuta attenzione e senza fraintendimenti. Convinti – come diceva Jean Monnet – che la storia dell’Europa è legata alle crisi «e sarà costituita dalla sommatoria delle soluzioni che saranno date a queste crisi», viviamo, in tempi di coronavirus, una piaga che certamente mette in crisi tante cose: i popoli afflitti, i governi che devono fronteggiare un pericolo verso il quale non erano pronti, le istituzioni e la fiducia nelle istituzioni, ed ultima ma non ultima, proprio l’Unione europea in quello che ne giustifica il progetto: un’unione sempre più unita.

Davanti a questa nuova crisi, i singoli Stati stanno mettendo in campo le misure che ritengono più efficaci, non senza sacrifici per le popolazioni, per le economie, per le politiche. 

Viene da chiedersi cosa stia facendo l’Unione. Davanti a un pericolo così trasversale e davvero transfrontaliero, verrebbe da chiedersi se non sia proprio l’Unione a dover assumersi un ruolo politico, economico e sociale di primo piano. Un ruolo effettivo che non si limita a proclami fini a se stessi. Giustamente il presidente della Commissione von der Leyen ha con un messaggio manifestato vicinanza all’Italia, correttamente sono stati messi in campo i primi provvedimenti, anche economici con lo stanziamento di 25 miliardi. Primi importanti passi che lasciano ben sperare sull’azione della Commissione. Diversamente la BCE, attraverso il suo presidente Lagarde, sembra avere impostato una risposta di politica economica più timida (rispetto a quella attesa) e dai piccoli passi (in relazione al momento che richiede invece accortezza e lungimiranza); da più parti facendo rimpiangere il precedente Draghi, più risoluto in termini di dimensione d’intervento e di misure da prendere con una certa tempestività. Un’azione, questa di Lagarde, che rimbalza – con argomento di competenza forse fuori luogo dato il momento specifico di tensione sui mercati – al Consiglio europeo la responsabilità di assumere azioni politiche incidenti.

Bene. A questo punto la considerazione nasce proprio dall’idea di Monnet: il processo avviato col progetto di una Conferenza sul futuro dell’Unione non è davvero procrastinabile. Forse questa emergenza che viene da un virus è quella che deve essere assunto come elemento per più risolutamente procedere a ripensare l’Unione, e magari a ripensarla finalmente in ottica federale.

Se appare inadeguata (così giudicata anche dai mercati) l’azione di Lagarde – soprattutto sul piano di una politica surrettizia che Draghi aveva posto in essere colmando i vuoti delle altre istituzioni europee – è anche vero che lenta appare la risposta proprio del Consiglio: soprattutto se si tiene conto che l’emergenza non interessa un singolo Stato ma l’Europa nel suo complesso; che la crisi attanaglia i popoli ma anche le economie; che in ballo sono i rapporti con gli Stati Uniti d’America in queste ore decisamente avversanti l’Europa (basti ricordare la decisione simbolica di mantenere i voli aerei solo col Regno Unito).

E qui non si tratta solo di volontà dei singoli ma anche di una previsione diversa di competenze, poteri, azioni che la Conferenza sul futuro dell’Unione dovrà affrontare a livello istituzionale. Per un comparto come quello sanitario e come quello della protezione civile non sarebbe sbagliato – in questi giorni anzi si avverte tutta la necessità – un coordinamento a livello europeo, soprattutto per problemi, com’è la pandemia attuale, che si controllano su larga scala e non all’interno di piccoli Stati con strategie e azioni rapide ed efficienti, anche di produzione e gestione dei presidi medici. Risalta evidente l’esigenza di prevedere una “politica per la società” di ampio respiro e ben coordinata finalmente europea.

Essere europeisti oggi significa rivendicare la propria casa, significa battersi perché l’Unione faccia un salto di qualità, significa pensare che una crisi grande può e deve trasformarsi in un’opportunità tale da rendere i sacrifici utili per uscire in condizioni migliori a quelle pre-crisi.  

Il virus che affligge oggi gli europei può essere combattuto anche con l’antivirus di una politica europea più coraggiosa, convinta, matura. Ed è questo che gli europeisti devono chiedere, è questo che rende la differenza tra europeisti e populisti. Le crisi, del resto, fanno emergere gli aspetti più belli e più brutti dell’essere umano, sta poi a noi scegliere se volere puntare sui primi o se cedere ai secondi. La storia dell’Unione è la storia di incessanti tentativi, non sempre riusciti ma mai interrotti, di donne e uomini che hanno decisamente creduto di muoversi nella prima direzione, in questo e per questa acquistano senso i “valori europei”. L’attuale è un’altra di queste occasioni, sta a tutti noi coglierla.

* Isesp

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