Avvenire di Calabria

Imponente inchiesta siglata dalla Procura Nazionale Antimafia e dalla Direzione distrettuale di Reggio Calabria

Dietro le stragi di mafia c’era l’anima ‘riservata’ delle ‘ndrine

Federico Minniti

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Non fu un “fatale incidente” a far perdere la vita a Giuseppe Garofalo e Antonino Fava, appuntati dei Carabinieri e freddati nel gennaio 1994 sulla Salerno – Reggio Calabria all'altezza dello svincolo di Scilla. A premere il grilletto fu Giuseppe Calabrò, attualmente detenuto, con il suo sodale, Consolato Villani, quest'ultimo – oggi – collaboratore di giustizia. La morte dei militari Fava e Garofalo si inserisce in una storia di “spioni” e “tragediatori”, quella della strategia stragista dalla quale, per troppo, tempo è stata estromessa la 'ndrangheta. Fino al nuovo atto di impulso fornito dalla Procura Nazionale Antimafia, all'epoca diretta da Piero Grasso che chiese un rinnovato dinamismo investigativo alla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Un invito accolto dal procuratore aggiunto della Dda reggina, Giuseppe Lombardo, e dal vice-procuratore nazionale antimafia, Francesco Curcio, che hanno condotto un'indagine epocale con il supporto operativo della Polizia di Stato. «Far luce su una vicenda così complessa è una vittoria dello Stato - ha detto Ivana Fava, figlia di Antonino, uno dei due carabinieri uccisi e presente alla conferenza stampa dell'operazione in codice “Ndrangheta Stragista” - Oggi è una vittoria per tutti noi». Sono parole commosse, ma che tratteggiano perfettamente quella che è un'inchiesta destinata a fare scuola perché, dietro quegli omicidi anomali – fatti da killer poco più che diciottenni all'epoca – si nascondeva il più grande (e sanguinario) accordo mafioso mai stipulato prima. Un «colpo allo Stato», come l'ha definito Giuseppe Graviano, spalla destra di Leoluca Bagarella e capomafia di Brancaccio, che è uno dei due boss fermati in qualità di mandante di quel duplice omicidio e degli altri due attentanti contro i carabinieri tutti effettuati tra il 1993 e il 1994 a Reggio Calabria. L'altro è Rocco Santo Filippone, capobastone dell'omonimo clan di Melicucco e confederato ai potentissimi Piromalli-Molè. Filippone, poi, è anche lo zio di Giuseppe Calabrò, ritenuto elemento importante dei clan Ficara-Latella. Non erano gli unici mandanti in terra di Calabria: con loro c'era anche Mimmo Logiudice, defunto di recente, ritenuto l'ultimo tassello di un quadro molto più amplio. Logiudice, infatti, era uomo dei Libri-De Stefano-Tegano: il “Gotha” della 'ndrangheta che decise di stringere un patto di ferro con Cosa Nostra, ancor prima della stagione delle bombe e con un motivo preciso: «Si tratta di “terrorismo conservativo” – ha detto Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia – per mantenere la propria influenza sulla classe politica». Un'azione pianificata nel 1991 e che portò, dopo le stragi di Capaci e Via D'Amelio, agli attentati di via Fauro, di San Giovanni in Laterano e Velabro a Roma, di via dei Georgofili a Firenze e di via Palestro a Milano. Fino all'attacco mirato all'Arma dei Carabinieri, in cui fu lo stesso boss Graviano a mettere in correlazione gli attentati “continentali” con quelli reggini parlandone con il pentito Gaspare Spatuzza: «Gli amici calabresi si sono già mossi». Cosa doveva succedere ancora? L'apice mafioso-terroristico sarebbe dovuto essere con la strage dei carabinieri, circa 180, allo Stadio Olimpico di Roma fallito per un problema al telecomando dell'auto esplosiva caricata con 120 kg di tritolo. Un fatto da rivendicare dalla “Falange Armata”, nata degli incontri lombardi (a Milano e Monza) tra i calabresi e i siciliani poi rinsaldati, dopo l'uccisione dei giudici Falcone e Borsellino al villaggio “Sayonara” di Nicotera Marina, terra dei Mancuso. Uno dei capi-ndrangheta, il boss Papalia parlando con un sodale del nome, “Falange Armata”, ammise: «Ci hanno detto di chiamarla così». «Quali altri soggetti hanno consentito un quadro di alleanze così elevato?» si è chiesto Federico Cafiero De Raho, procuratore capo di Reggio Calabria. Pezzi da rintracciare tra i servizi segreti e massoneria deviata, dove la Calabria – nella componente “riservata” era più «avanti» rispetto a Cosa Nostra secondo quanto dichiarato da Gioacchino Pennino, nipote di Stefano Bontade che ha tirato in ballo, nella sua deposizone, anche le parole dell'allora Gran maestro del Goi, De Bernardo. Ma cosa successe in quel 1991 tra Reggio e Palermo? Mentre Riina riunì la Cupola ad Enna, i vertici della 'ndrangheta si incontrarono il 28 settembre a Polsi. C'erano tutti e tra loro c'era anche Amedeo Matacena jr. Le stragi, il terrorismo erano solo una faccia della medaglia, andava trovato «il partito degli uomini» che doveva “superare” la Dc. I «riservati» tracciarono, quindi, l'idea politica che in quel tempo assunse la dimensione autonomista: Calabria Libera, Sicilia Libera e via discorrendo. Chi c'era alla conduzione di questo progetto? Nomi notissimi come Vito Ciancimino, Licio Gelli e – secondo la deposizione di molti collaboratori di giustizia - il gruppo dei reggini della P2: gli avvocati Paolo Romeo e Giorgio De Stefano.

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