Avvenire di Calabria

Disparità di Stato: la spesa (irrisoria) per il Welfare calabrese

Siamo abituati a «leggere» il benessere attraverso il Pil. Ma il vero vuoto è dato da quanto viene investito per sostenere le fasce deboli

Giorgio Marcello *

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Dopo il trentennio di massima espansione, all’inizio degli anni ottanta prende inizio il declino del modello sociale europeo. Più di recente, dopo lo scoppio della crisi globale, che ha avuto i suoi picchi più drammatici nel 2008 e nel 2010, i governi europei hanno messo in atto politiche di austerità che hanno determinato una progressiva contrazione della spesa sociale, allo scopo di contenere il disavanzo pubblico, considerato la principale causa della crisi. Secondo studiosi autorevoli come Gallino (2015), tali politiche – che hanno determinato un aumento vertiginoso delle disuguaglianze – si fondano su un presupposto sbagliato, e rappresentano l’equivalente di un vero e proprio colpo di stato, orchestrato da banche e istituzioni finanziarie, con la complicità delle istituzioni della Ue. L’analisi che Gallino propone, non è molto distante dai ragionamenti sviluppati da Papa Francesco nella Laudato si’ (2014), soprattutto nei passaggi in cui afferma che il sistema economico imperante su scala globale è un sistema che impoverisce e uccide.

Gli approcci considerati ci dicono che le disuguaglianze costituiscono una realtà prismatica, che non può essere misurata solo con gli indicatori dello sviluppo economico e produttivo. La dimensione sociale si mescola con quella ambientale ed economica. Le analisi scientifiche e il dibattito pubblico mettono in evidenza la distanza tra il Nord e il Sud del paese, utilizzando come indicatore principale il Pil (che fornisce una misura oggettiva al divario di sviluppo tra le due aree considerate) e il divario tra i due sistemi produttivi. Resta invece in ombra un aspetto essenziale di uno stato unitario: quello per cui ai cittadini vanno assicurate uguali opportunità di accesso ai beni di cittadinanza, a prescindere dal luogo di residenza e dal grado di sviluppo produttivo locale. In un saggio di qualche anno fa, Cersosimo e Nisticò (2013) mostrano come in Italia il divario civile è più accentuato di quello economico, ed è anche più preoccupante, poiché indebolisce il senso di appartenenza ad un’unica comunità nazionale: «l’evidenza che un calabrese ammalato non possa curarsi nella propria città con la stessa tempestività ed efficacia di un lombardo è meno accettabile, sotto il profilo dell’equità, della circostanza che lo stesso calabrese possa fare riferimento a un reddito disponibile pari ad appena la metà di quello medio dei lombardi».

La fruizione concreta dei diritti di cittadinanza dovrebbe essere assicurata in tutti i territori, in maniera omogenea. Il testo dimostra invece che «le disuguaglianze odierne in termini di disponibilità, accessibilità e qualità di servizi civili essenziali tra Nord e Sud, siano sovente così marcate da risultare incompatibili con uno stato costituzionalmente vincolato a perseguire equità di offerta di servizi primari come la sanità, la scuola, la giustizia e la sicurezza per tutti i suoi cittadini» Tutto ciò interroga profondamente la vita della città e la vita della Chiesa. Facendo un esercizio di memoria del futuro, richiamo una lezione del secolo scorso, tenuta da Dossetti a conclusione del suo impegno politico attivo, nel marzo del 1953, dal titolo inequivocabile: «Catastroficità sociale e criticità ecclesiale». Una chiesa che punta tutto sull’attivismo, sul suo protagonismo sulla scena civile rischia di scivolare nell’autoreferenzialità e di perdere di vista il Vangelo e di perdere il contatto vero con i poveri. Ora papa Francesco parla di povertà come luogo teologico e alimenta il sogno di una Chiesa di poveri, perché centrati su ciò che conta davvero e che non passa, e perciò in grado di essere dalla parte della immensa moltitudine dei poveri che soffre sotto ogni latitudine.

* Docente Unical

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