Avvenire di Calabria

«Bisognava cambiare l’osservatorio da cui scrutare i fenomeni sociali che agitavano gli animi dei ragazzi del boia chi molla»

Il magistrato: «Quando il vescovo Ferro mi scelse come direttore»

Franco Marra

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Ecco come accadde che divenissi il Direttore laico dell’ Avvenire di Calabria; e lo rimanessi per circa tre anni.
L’invito a ricordare quel periodo, fattomi da don Davide Imeneo, mi ha reso particolarmente felice; forse perché, comune a molti anziani della mia età, ho spesso la sensazione che anche io, come il maggiordomo Firs, custode della casa avita nel Giardino dei ciliegi di Cecov, debba malinconicamente concludere la storia (quando i padroni e signori avevano venduto casa e giardino allo speculatore edilizio del tempo) con la celebre battuta che a un dipresso recita: “e così, tutti si sono dimenticati di me”. Quindi, un grazie al giovane don Davide.
Ma, più realisticamente, credo che questa euforia sia dovuta al fatto che sono stato invitato a ricordare alcuni anni della mia piena giovinezza, particolarmente intensi per l’impegno professionale e l’attivismo sociale.
Si era alla metà circa degli anni 70 ed esercitavo la mia attività di magistrato a Reggio da alcuni anni. Nel contempo, nell’ambito delle organizzazioni di Azione Cattolica, ero il Presidente di quella della mia comunità parrocchiale e il vice presidente di quella diocesana in rappresentanza degli adulti. Oltre a ciò, e soprattutto, ero consapevole di godere della stima, dell’apprezzamento e dell’affetto del mio Arcivescovo, mons. Giovanni Ferro di venerata memoria, e del Vicario Generale, ancora oggi indimenticabile e indimenticato, don Italo Calabrò; consapevolezza, questa, che conseguentemente mi spingeva a essere sempre all’altezza delle relative aspettative.
Non mi sorprese, quindi, che un tardo pomeriggio di un giorno del 1976, il mio parroco e fratello in spirito (don Domenico Geraci, anche lui di indimenticata memoria per le opere che ha pensate e realizzate per la Chiesa reggina) mi chiamasse a casa e mi chiedesse di recarmi in canonica, chè il Vicario mons. Calabrò aveva necessità di parlarmi. Credevo che avesse da chiedermi qualche parere o consiglio di natura legale, come altre volte era accaduto. Nello studio del parroco, invece, mi sorprese con una inaspettata richiesta: per mandato di Mons. Ferro veniva a chiedermi di accettare l’incarico di nuovo Direttore dell’Avvenire di Calabria; e aggiunse che l’Arcivescovo si auspicava che io accettassi. Ricordo come fosse oggi l’espressione gioiosa e di piena condivisione di don Geraci, che vedeva in questa straordinaria e inattesa richiesta ancora una occasione in cui la chiesa reggina attingeva con fiducia alle risorse della sua comunità parrocchiale.
Naturalmente accettai; oggi direi a cuor leggero, o – se volete - con un entusiasmo che non mi faceva valutare completamente l’importanza del compito e le sue possibili difficoltà: bastava che pensassi che mi attendeva di prendere il posto che era stato, per circa trentanni, di don Vincenzo Lembo, vale a dire uno dei più apprezzati esponenti dell’intelligenza e della cultura ecclesiale e, più ampiamente, cattolica reggina. Feci una sola obiezione sulla possibilità di dirigere quell’organo di stampa senza avere la qualifica formale di giornalista; mi fu risposto che il direttore responsabile sarebbe stato mons. Vincenzo Zoccali, dal quale era sicuro che non avrei avuto che appoggio senza riserve. E così fu, nonostante la fama di personalità esuberante che il Monsignore si portava appresso. E di ciò, ripensandoci a distanza di decenni, gli sono ancora grato.
Ebbi una redazione giovane, integrata dalla esperienza di qualche anziano che già aveva collaborato all’Avvenire di don Lembo. E come segnale anche visivo di questa voluta giovinezza disposi che mutasse la forma grafica della testata: all’elegante ma alquanto datato corsivo, che ancora oggi, a distanza di settanta anni dalla sua prima apparizione, caratterizza il nostro periodico, fu sostituito un carattere grafico che ritenevo più consono ai tempi correnti. A sinistra e a destra del titolo due piccoli riquadri contenevano l’enunciazione programmatica della nuova direzione: il riquadrato alla sinistra ne indicava il contenuto: “ i fatti e le idee ”; quello alla destra l’ambiziosa funzione: “ al servizio della Verità ”. Un periodico, dunque, che fosse non solo cronaca di fatti ecclesiali di più o meno ampia portata e risonanza, ma anche un luogo dove idee che nella e dalla ecclesìa reggina- bovense potevano sorgere e circolare, e di un auspicabile eventuale dibattito sulle stesse. Tutto questo non fine a se stesso, ma come strumento di crescita nel confronto con la verità. Quale verità, potrebbe chiedermi qualcuno. Non certo quella che l’orgoglio e la supponenza poteva far credere che ognuno di noi possedesse, insieme con il dovere di comunicarla agli altri. Ma quella che il Maestro aveva indicato, quando aveva rivelato ai discepoli, quindi anche a noi credenti, che in Lui erano la Via, la Verità e la Vita, e che per colui che scrive significa chiamare le cose col loro nome, comunicare all’insegna del “ tuo parlare che sia sì sì, no no “, cosa che per il giornalista significa, pur con la necessaria misura di stile e di rispetto per le persone, dare del ladro al ladro e del santo al santo.
A questo programma, posso dirlo con assoluta sincerità, la mia direzione e i miei collaboratori sempre si attennero. Non posso giudicare la bravura giornalistica, la bontà del prodotto dei nostri sforzi e del nostro impegno. Mai l’Arcivescovo Mons. Ferro e il Direttore responsabile, mons. Zoccali intervennero nei nostri confronti, né mai interferirono direttamente o indirettamente nel nostro lavoro. Pettegolezzi e voci di corridoio spesse volte mi riferirono, anzi, di politici e amministratori locali, che si erano recati dal Vescovo a dolersi del contenuto di nostre osservazioni e commenti sui loro comportamenti; e che il presule li aveva ascoltati e congedati sempre esortandoli a lavorare ognuno secondo coscienza per il bene delle comunità che essi rappresentavano. Erano i politici e gli amministratori che da lì a qualche anno avrebbero subito le conseguenze della stagione cosiddetta di “mani pulite”. A essi il nostro periodico rimproverava specialmente il familismo, il clientelismo, il disinteresse spesso palese per i beni pubblici che avrebbero dovuto amministrare.
Mi sono chiesto, specialmente all’inizio del mio incarico, perchè Monsignor Ferro avesse fatto la scelta “laica” nel far transitare l’ Avvenire di Calabria dalla direzione di don Lembo ad altro direttore, pur avendo ampia scelta di intelligenze e di ingegni nell’ambito della Chiesa ministeriale. Ritengo che anche in questo campo abbia operato l’intelligenza e la sollecitudine pastorale di questo illuminato presule, piemontese d’origine, educazione e cultura divenuto reggino di adozione e di cuore, e come tale sentito e amato dai reggini. Nella occasione Egli sentì e comprese come non fosse passata invano una stagione trentennale dalla fondazione del periodico diocesano, con la sua Storia: il dopoguerra, la ricostruzione materiale e morale, la stagione delle violente contrapposizioni ideologiche, la ormai consolidata pacificazione politica fra le classi sociali; e che fenomeni culturali generali come quelli che avevano prodotto il cosiddetto “sessantotto” o fenomeni sociali locali quali quelli che avevano dato vita alla grave destabilizzazione sociale passata alla Storia nazionale come “la rivolta di Reggio” o dei “boia chi molla”, avessero bisogno di uno osservatorio ecclesiale diverso da quello del passato, che leggesse la realtà della Chiesa e della Società reggina con occhi diversi e formati nei tempi delle trasformazioni. E questi potevano essere gli occhi di un laicato giovane che si era formato nel clima del Concilio Vaticano II, laicato che lo stesso Concilio aveva insegnato senza equivoci che anch’esso era a pieno titolo parte viva della Chiesa di Cristo insieme con la Chiesa istituzionale e ordinamentale. E appunto su questo laicato mons. Ferro aveva scommesso, affidando sorprendentemente a un laico la direzione del periodico diocesano.
La mia esperienza di Direttore durò un triennio circa. Nel 1978, l’Arcivescovo Giovanni Ferro divenne Vescovo emerito e, per un certo tempo, si stabilì a Catanzaro. A Reggio tornò dopo un anno circa di assenza, e fu accolto con gioia dal clero e dai fedeli Reggini. Di questa gioia deve essere rimasta traccia nell’ultimo numero dell’Avvenire da me diretto. Dopo accadde che mi fu fatto sapere informalmente che il periodico sospendeva la pubblicazione perché tutto il sistema della comunicazioni sociali della Curia reggina aveva necessità di una ristrutturazione organizzativa.
Dell’Avvenire non ebbi più notizia alcuna per circa un anno, fin quando non vidi in parrocchia il primo numero della sua rinata vita. Era ritornato, nella testata, alla vecchia grafica che tuttora conserva; e, se non ricordo male, era divenuto settimanale affidato alla Direzione del mio amico sacerdote don Pippo Curatola, che lo avrebbe brillantemente diretto per oltre trentanni, superando così il tempo della direzione di don Vincenzo Lembo. Da questa esperienza io e qualcun altro dei miei giovani redattori guadagnammo i titoli per essere iscritti all’albo regionale dei giornalisti pubblicisti.
Mi scuso con i lettori per avere affidato il ricordo delle date e dei tempi alla memoria e non a un preciso riscontro documentale. Credo che in un’occasione come questa per cui ho scritto, la vita che c’è nel ricordo sia più vivida di quella delle date precise che segnano le vecchie carte, sempre che queste esistano ancora e siano custodite, perché nel ricordo rivivono i fantasmi di persone e fatti, che alla fine ci hanno fatti quelli che siamo.

* direttore de L’Avvenire di Calabria dal 1976 al 1978

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