Avvenire di Calabria

La Chiesa non è destinata al declino

Anteprima dell'autobiografia del cardinale Scola dal titolo «Ho scommesso sulla libertà», che sarà presentata il 22 agosto

Angelo Scola e Luigi Geminazzi *

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Il futuro del cristianesimo s’intreccia con la domanda sul futuro della secolarizzazione. Ci sarà ancora spazio per il senso religioso?
Il senso religioso non sparirà mai, perché non si può eliminare dal cuore dell’uomo la domanda sul significato della propria vita, che inesorabilmente diventa una domanda sul mistero. Possiamo tentare di scacciarlo come un pensiero fastidioso, possiamo cercare di soffocarlo ma prima o poi, in un modo o nell’altro, si ripresenta. Negli anni Settanta ho abitato per tre mesi a Parigi, non lontano dalla Tour Eiffel, e uscendo di casa facevo sempre un percorso che costeggiava quel che i francesi chiamano un terrain vague, un terreno ricoperto di macerie di un palazzo distrutto. Mi colpì un giorno vedere dei ciuffi d’erba che spuntavano qua e là fra i cumuli di detriti. Ecco, il senso religioso è come quei ciuffi d’erba: non lo si può estirpare, salterà sempre fuori. Questo vale per tutti.

 
C’è poi il senso religioso che si traduce in una religione. Teoricamente ci potrebbero essere tante religioni quanti sono gli individui, ma normalmente una fede vive concretamente in una realtà sociale. Ed è proprio questo legame tra religione e popolo che oggi sembra venir messo in crisi nella società occidentale, soprattutto in Europa dove il cristianesimo continua a perdere terreno. Ho affrontato questo argomento in uno dei miei ultimi scritti dedicato al post-cristianesimo ma con un punto interrogativo, perché ancora oggi ci sono donne e uomini che continuano ad attendere un Altro che venga loro incontro. È con tale attesa che il cristianesimo deve entrare in dialogo. La speranza per l’Europa, e più in generale per il mondo contemporaneo, si gioca a questo livello.

Se guardiamo ai numeri, la Chiesa è destinata al declino, con l’eccezione dei continenti in via di sviluppo dell’Asia e dell’Africa. Possiamo prevedere, in un futuro non troppo remoto, un cambiamento radicale dei connotati socio-culturali del cristianesimo?
Se stiamo all’analisi sociologica, i segnali che emergono sono abbastanza contraddittori. Noi ormai siamo abituati a parlare di collasso della Chiesa in Europa ma l’Italia, la Spagna e la Polonia, per esempio, continuano a registrare una percentuale significativa di pratica religiosa. Nel nostro Paese, la frequenza alla Messa domenicale risulta in calo ma supera pur sempre il 20%. Certo, poi vi sono Paesi come la Francia dove è molto più bassa. Ma ho letto recentemente un volumetto di Jean-Luc Marion, Breve apologia per un momento cattolico, in cui si afferma che il meglio della laicité tanto cara ai francesi lo si deve all’influsso del cattolicesimo, e non ai radical-laicisti che esaltano la legge del 1905.
 
Per quanto riguarda il baricentro della Chiesa cattolica che si sarebbe ormai spostato in America Latina, anche qui le cose non sono così semplici. Nel continente sudamericano stiamo assistendo alla massiccia erosione dei fedeli, dovuta alla diffusione delle sette evangeliche. Se guardiamo all’Africa e all’Asia notiamo la tendenza costante alla crescita del numero dei battezzati. Ma nel continente asiatico ci sono fenomeni contrastanti: in Corea del Sud ogni anno si registrano decine di migliaia di catecumeni adulti, mentre nelle Filippine, di tradizione cattolica, la frequenza domenicale è in calo. È dunque difficile prevedere quale sarà il destino del cristianesimo in Europa e nel mondo. D’altra parte, nella storia della Chiesa ci sono state stagioni d’incredibile fioritura seguite da lunghi periodi di emarginazione e assenza. Pensiamo per esempio all’Africa nord-occidentale dove tra la fine del III e l’inizio del IV secolo c’erano decine e decine di monasteri e oggi, ma ormai da molto tempo, la presenza cristiana è poco più che simbolica, se si eccettua la Chiesa copta in Egitto. Oppure, per fare un esempio più recente, pensiamo all’associazionismo cattolico in Italia, una rete di strutture forte e capillare che è stata decimata dalla contestazione del Sessantotto.
 
Questo ci dà una grande serenità nel guardare al futuro. Il destino della Chiesa ultimamente non dipende da noi. Siamo noi che dobbiamo vivere nella dipendenza dall’avvenimento di Cristo che la potenza dello Spirito ci ripropone nelle circostanze e nei rapporti di ogni giorno. Cosa rimarrà di quel che abbiamo cercato di costruire non lo sappiamo. Ma questo anziché angosciarci ci rende immensamente liberi.

Liberi da che cosa? Liberi dall’esito di quel che facciamo. L’esito non è mai nelle nostre mani. Vale per la persona, vale per un gruppo e vale anche per la Chiesa. Questo non significa indifferenza perché non toglie il gusto e la passione per l’azione. Ci mette invece al riparo dal vittimismo e dalla lamentela sulle chiese che si svuotano, sui giovani che ci girano le spalle e via dicendo. Così siamo riportati all’origine del gesto, a quel che l’ha generato, perché qui sta la fonte dell’energia con cui facciamo le cose, non nel risultato che potrà esserci o non esserci.
 
Devo dire che questo richiamo a essere liberi dall’esito, su cui ho sempre insistito lungo il mio ministero episcopale, è stato il più ripreso dai sacerdoti che ho incontrato, in tutte le diocesi che mi sono state affidate. Ho notato che, in genere, dava loro sollievo e serenità e aumentava l’intensità del loro impegno, indipendentemente dalle tante iniziative messe in campo con alterne fortune. Di norma, l’atteggiamento iniziale era proprio l’opposto. Mi ricordo un episodio quand’ero vescovo a Grosseto dove ero solito incitare i sacerdoti a trovare modalità informali e il più possibili aperte di dialogo con i giovani. Alle mie insistenze, un prete rispose così: «Senta, io ho spedito una lettera a tutti i giovani della mia parrocchia invitandoli a un incontro e sono venuti in cinque. Allora l’ho spedita un’altra volta ma non è che abbia sortito grande effetto. Basta, ho fatto quel che potevo». Lui si era mosso sulla base di un progetto che non aveva funzionato e quindi la cosa finiva lì. Ma il compito di educare i giovani alla fede non può essere ridotto a un’iniziativa subito archiviata, è un impeto di vita che il cristiano, se è tale, ha dentro e non si arresta davanti a quel che può sembrare un risultato fallimentare. «Liberi dall’esito» significa in definitiva non essere prigionieri dei propri progetti, ma restare spalancati alla realtà che è sempre più grande degli schemi. Mi sembra proprio questa la direzione che Papa Francesco ha inteso dare al Sinodo dei vescovi sui giovani che ha convocato per l’ottobre del 2018.
 
Essere spalancati alla realtà con curiosità e audacia è la caratteristica propria della gioventù. Il Papa ha preso di petto la questione già nella lettera di preparazione al Sinodo inviata ai giovani all’inizio del 2017. Dopo aver ricordato le parole che Dio rivolse ad Abramo «Vattene dalla tua terra», scrive: «Queste parole sono oggi indirizzate anche a voi: sono parole di un Padre che vi invita ad “uscire” per lanciarvi verso un futuro non conosciuto ma portatore di sicure realizzazioni, incontro al quale Egli stesso vi accompagna». È la descrizione affascinante di cosa significa la parola «vocazione», che non a caso è contenuta nel titolo del Sinodo «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale». Oggi però «il futuro non conosciuto » spaventa e la frase biblica «Vattene dalla tua terra» assume il significato della prevaricazione, dell’ingiustizia e della guerra, dice il Papa. Più in generale è lo stesso concetto di vocazione che a mio avviso va rilanciato, perché oggi appare più che mai logorato e obsoleto. È andata persa la coscienza, sorretta dalla fede, secondo cui la vita stessa è vocazione, è dunque una risposta alla chiamata di Qualcuno che conosce la strada e ci accompagna nel cammino.
 
* Estratto dall'autobiografia del Cardinale Angelo Scola dal titolo Ho scommesso sulla libertà

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