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La fragilità diventa gesto poetico, il tempo si piega in spirale, e l’incontro con l’altro si trasforma in rito contemporaneo
L’arte come ispirazione, immagine, incarnazione del sentire: è il nucleo della ricerca di Larissa Mollace, artista reggina classe ’89. Una visione che prende forma nella mostra personale “L’incontro”, fino al 31 luglio 2025 al Palazzo della Cultura “Pasquino Crupi” di Reggio Calabria, a cura di Antonella Aricò e Laura Mileto, con il patrocinio della Città Metropolitana. Cinque ambienti immersivi accompagnano il visitatore in un viaggio tra memoria, affetti, lutto e rinascita, attraverso fotografia, installazioni, pittura e ready-made. L’abbiamo raggiunta per conoscere il suo immaginario, dove la fragilità diventa gesto poetico, il tempo si piega in spirale, e l’incontro con l’altro si trasforma in rito contemporaneo.

Nell’installazione Incontro trasformi una sedia di plastica comune in un oggetto carico di memoria e affetto. Come nasce questa scelta e che ruolo ha per te la quotidianità nell’arte? Confrontandomi spesso con amici designer, ho scoperto l’importanza che la sedia Monobloc ha assunto nel mondo del design: è stata definita la sedia più comune al mondo. Questo mi ha fatto riflettere su come gli oggetti più quotidiani, anche i più umili e sottovalutati, possano custodire connessioni profonde con la nostra esperienza personale. È quindi nato in me il desiderio di rivalutarla, riconoscendone non solo un valore simbolico ma anche affettivo. Sono molto legata a quella sedia: fin da bambina, la collego alla persona che crescendo ho sempre visto seduta su una sedia simile. Da qui l’idea consolatoria che ogni qual volta incontro sulla mia strada, o vedo sui balconi dei vicini una sedia Monoblocco - proprio quella sedia - riesce a farmi rivivere in maniera più vivida i ricordi a me cari e ad incontrare, ancora e metaforicamente, chi ho perso… la mia nonna materna.
In Lacrimarium, l’arte diventa rito e purificazione. Che ruolo ha per te la spiritualità nell’arte? Una purificazione dal rimpianto. Ho provato in prima persona un senso di guarigione nella ritualità di recarmi al cimitero, con tutte le pratiche che accompagnano questo gesto. Visitare i nostri cari, innaffiare i fiori, dire grazie: sono riti che ci consolano nel momento in cui elaboriamo il lutto. E con l’happening artistico svolto assieme agli spettatori della Biennale dello Stretto, volevo mostrare come un sentimento comune anche di dolore, possa unire le persone, e come in questa comunione ci si possa sentire capiti. È stata una performance svolta dal pubblico, fondata sulla condivisione del dolore, per infine superarlo e arrivare alla gratitudine tramite il versare l’acqua dal flaconcino pop, il Lacrimatoio. Quindi si, l’arte è uno strumento di guarigione.
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Le tue opere tracciano una mappa emotiva dell’esistenza. In un tempo che spesso anestetizza le emozioni, credi che l’arte possa ancora essere uno spazio sacro di umanità e trasformazione? Credo che l’arte abbia il potere di risvegliare la sensibilità umana, di scuoterci dall’intorpidimento. Quando un artista crea, incanala emozioni in qualcosa destinato all’altro, come un telegramma importante da recapitare – per citare Rodolfo Chirico, mio mentore. All’inizio della mia carriera, ho scritto un saggio sulla fenomenologia dell’arte, e Kandinsky è stato tra i miei riferimenti maggiori con Lo spirituale nell’arte. In questo testo l’opera d’arte diventa un canale attraverso cui, grazie all’intuizione dell’artista, possiamo cogliere il lato spirituale delle cose e vivere in connessione con le nostre emozioni. La cultura ha questo potenziale e bisogna ricordarcelo a vicenda, per non perdere le battaglie che tanti prima di noi hanno combattuto con coraggio. Io dico spesso “avanti alla guardia”, riferendomi etimologicamente all’avanguardia che ci hanno preceduto.

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