Apre il Centro di facilitazione digitale a Santo Stefano d’Aspromonte
L’obiettivo è quello di accompagnare gli utenti nel mondo digitale e migliorare la propria autonomia
Come è cambiato il mondo del lavoro dopo il tempo più rigido delle restrizioni dovute alla pandemia planetaria? Potremmo dire radicalmente con novità spesso distanti anni-luce una dall'altra.
I lavori più richiesti sul mercato occupazionale? Tutti con fortissime competenze digitali. A mettere nero su bianco la “classifica” delle professioni più gettonate del 2022 è stato LinkedIn, il Social network che si occupa prevalentemente di lavoro.
Le posizioni lavorative emergenti vanno dall’ingegnere robotico a quello del machine learning; dal Cloud architect al Data engineer. E ancora: Sustainability manager, consulente di data management, analista delle risorse umane, talent acquisition specialist, software account executive e cyber security specialist.
Una pioggia di inglesismi che ruotano attorno alla capacità dei giovani (e meno giovani) di gestire i processi di cambiamento dettati dalla rivoluzione digitale. In questi settori il 90% degli intervistati da LinkedIn si sente sicuro del suo attuale ruolo lavorativo, tanto che il 63% ha maturato abbastanza sicurezza da essere spinto a chiedere una promozione o a candidarsi per un ruolo più alto rispetto a quello in cui si trova attualmente.
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Otto nuovi assunti su 10 sono precari. L’Italia è al record storico di occupati a termine: 3 milioni e 175 mila a febbraio, lo certifica l’Istat. Quasi nove lavoratori su dieci - l’86% - firmano contratti sotto i sei mesi di durata. In tutti i settori, non solo le comparse del cinema. Anche nella pubblica amministrazione, tutt’altro che virtuosa.
Passato il lockdown, rimbalzato il Pil - dal -9 al +6,6% - l’occupazione è però rimasta precaria. La tendenza non sembra riassorbirsi, anzi con la guerra in Ucraina, i costi delle materie prime e dell’energia alle stelle, molte aziende sono già operative a intermittenza, rischiano il fermo se non la chiusura. Un contesto non certo favorevole per archiviare i mini jobs. Già nell’ultimo trimestre del 2021 la tendenza era chiara.
Lievitano i contratti con durata tra uno e sei mesi al 45% dal 39% del 2019: quasi la metà di tutti quelli attivati. Se si aggiungono i contratti a un giorno, una settimana e un mese, arriviamo all’86%, ovvero quasi nove lavoratori su dieci firmano assunzioni sotto i 180 giorni. Se solo 13 contratti su 100 durano tra sei mesi e un anno, a colpire rispetto al pre-crisi è la percentuale dei contratti sopra l’anno: dal già esiguo 2,6% siamo precipitati allo 0,9%. Una precarietà che rende impossibile una vita stabile e minime prospettive di futuro.
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La tendenza a cercare nuove soluzioni lavorative si conferma anche nel nostro Paese che storicamente è caratterizzato da un mercato del lavoro rigido. A dirlo sono i numeri: nel 2021, secondo i dati del ministero del Lavoro, si contano 2 milioni di abbandoni volontari da parte dei dipendenti, un +33% rispetto al 2020.
E nel 2022 i numeri potrebbero crescere. Cercare di capire le ragioni di questo fenomeno non è semplice. Ad incidere sono elementi diversi: si va dalla ricerca di maggior tempo per sé, alla conciliazione tra lavoro e vita, al rimbalzo economico del post pandemia e allo smart working. Prima di analizzare le ragioni che spingono a cambiare lavoro, perché in Italia di questo si tratta, è utile capire chi si dimette.
Secondo un recente studio della Fondazione Consulenti del lavoro, i dati da segnare sono due: si tratta di uomini nella maggior parte dei casi e di giovani nel 43,2% dei casi. A livello geografico, il fenomeno riflette la distribuzione dei lavoratori, con il 56,4% delle dimissioni avvenute al Nord, il 23,7% al Sud e il 19,9% al Centro.
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