Avvenire di Calabria

L’ordine che non c’è

Il disastroso sgombero di Roma

Mimmo Muolo

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Adesso che lo sgombero dei rifugiati etiopi ed eritrei è stato portato a termine dalla polizia, più d’uno dirà che ordine e "decoro" sono tornati a regnare, per così dire, "sovrani" nella romana piazza Indipendenza, a poche centinaia di metri dalla Stazione Termini e a pochi passi dalla sede del Csm. Tutti contenti, dunque? In realtà la vicenda conclusasi ieri, dopo un tira e molla di quasi una settimana e una genesi ben più lunga (visto e considerato che l’occupazione del palazzo dove finora gli esuli dalle ex colonie italiane del Corno d’Africa "risiedevano" data al 2013), lascia in molti modi l’amaro in bocca. Anche perché è emblematica di come certe situazioni vengano purtroppo (s)governate nel nostro Paese che sinora ha invece primeggiato nell’impegno umanitario d’emergenza per scongiurare stragi nel Mediterraneo.

Gli aspetti da considerare sono diversi e complessi. E quello pur importantissimo della sicurezza e del ripristino della legalità, che talune forze politiche sempre reclamano a gran voce in simili occasioni (dimenticando tutti gli altri), non esaurisce di certo l’orizzonte delle questioni sul tavolo. Qui, infatti, è in gioco innanzitutto la dignità delle persone, specie quelle più fragili e in fuga da guerra e persecuzioni politiche e religiose, come i protagonisti di questa vicenda. Gli sgomberati di piazza Indipendenza non sono infatti immigrati irregolari apparsi all’improvviso, ma per la quasi totalità persone titolari di protezione internazionale. Uomini, donne e bambini ai quali lo Stato italiano ha a suo tempo (a volte molto tempo…) solennemente riconosciuto lo status di rifugiati, con la conseguente serie di diritti (e doveri) che questa condizione comporta.

Un primo gruppo di domande si impone quindi. Come è possibile che oltre 400 persone ufficialmente accolte in Italia, per trovare una sistemazione abitativa almeno decente, abbiano dovuto occupare (atto certamente illegale) uno stabile privato? E perché si è lasciato che questa situazione si protraesse per quattro anni, fino alla degenerazione cui abbiamo assistito da sabato in poi e che è culminata nello sgombero forzoso di ieri mattina, con il suo odioso corollario di idranti, lancio di oggetti (tra i quali una bombola di gas), feriti e persino frasi che in bocca a un funzionario di polizia non vorremmo mai ascoltare? In sostanza perché si ha sempre la sensazione che questo sia il Paese della logica emergenziale elevata a sistema, anche quando ci sarebbero il tempo e le condizioni per fare tutto secondo ben altri criteri?

Nel caso dello stabile di piazza Indipendenza questa logica è stata particolarmente evidente. Gli addetti ai lavori, come ieri ricordava anche una nota della Caritas romana, sapevano da tempo che lo sgombero sarebbe avvenuto. Lo imponevano, oltre alle già citate questioni di legalità (restituire l’immobile ai legittimi proprietari), anche le condizioni ormai pericolosamente precarie in cui gli occupanti vivevano all’interno di un palazzo grande quanto un intero isolato e le condizioni igieniche, certo non ideali, che si estendevano alla piazza antistante e alle vie limitrofe.

E qui sorge inevitabilmente un secondo gruppo di domande. Come è possibile pensare di sgomberare un numero così elevato di persone (tra i quali una cinquantina di nuclei familiari e 35 minori) senza dare loro una sistemazione alternativa od offrendo soluzioni così disagevoli da risultare inaccettabili anche a motivo della divisione di molte famiglie? Perché si è lasciato che il problema da "politico" divenisse una mera questione di ordine pubblico, scaricandolo di fatto sulle sole spalle delle forze dell’ordine? E in definitiva dov’erano - e dove sono stati negli anni scorsi - gli enti locali (Comune di Roma in primis) che con i loro interventi programmati avrebbero dovuto assicurare una transizione pilotata e non così traumatica?

Alla fine, purtroppo, non si può che condividere l’amara notazione del vescovo ausiliare di Roma, Paolo Lojudice. Da questa vicenda, oltre agli uomini e alle donne eritrei ed etiopi vittime di un’accoglienza fallita e di uno sgombero disastroso, usciamo tutti un po’ sconfitti.

Escono sconfitti coloro che soffiano sul fuoco del "tanto peggio tanto meglio", fomentando a seconda della coloritura politica o il risentimento contro profughi e immigrati (come fa una destra xenofoba dimentica stavolta anche della storia coloniale italiana oltre che dell’umanità) o quello degli stessi immigrati e profughi (come hanno fatto irresponsabilmente in questi giorni talune sigle "sociali" che pure dicono di volersi schierare a loro difesa). Esce sconfitta ancora una volta la città di Roma, sempre più segnata anche da comportamenti amministrativi ai limiti del dilettantismo (gli otto assessori cambiati dalla giunta Raggi in poco più di anno sono un brutto record). Ma soprattutto esce sconfitta la politica nel suo complesso, colpevolmente assente (in questi stessi giorni nessuno ha fatto anche solo capolino a piazza Indipendenza) e incomprensibilmente incapace di prevedere percorsi di autentica integrazione per le persone perseguitate in patria e alle quali formalmente assicura civile protezione.

Nella capitale (come in altre parti della Penisola) situazioni analoghe sono diverse. Già si parla di altri sgomberi, più o meno imminenti, che potrebbero coinvolgere non solo rifugiati e immigrati, ma anche cittadini italiani. Non ci stanchiamo e non ci stancheremo di ripetere da queste colonne che non c’è legalità senza umanità, e che l’unica legalità rispettabile è quella che custodisce i diritti umani fondamentali e ogni vita, ma soprattutto la più vulnerabile. Quanto abbiamo dovuto vedere, e che abbiamo visto subire, a Roma, in piazza Indipendenza, non deve ripetersi più. Altrimenti non ci sarà mai ordine né decoro.

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