Avvenire di Calabria

Lo spaccato che emerge è aberrante: le vittime spesso si trincerano nel silenzio per paura delle dicerie del vicinato

Maltrattate e «imprigionate» dai giudizi della gente

Redazione Web

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di Francesca Mallamaci * - La Casa Rifugio “Angela Morabito”, dal 2013 sino al 31 dicembre 2018, ha accolto 39 donne e complessivamente i loro 32 figli. Tutte hanno beneficiato di percorsi individualizzati di accompagnamento ed affrancamento dalla violenza subita. A queste vanno aggiunti i 423 accessi al Centro antiviolenza, collegato al Numero Verde aderente alla rete nazionale 1522, cui sono conseguiti 55 prese in carico territoriali. Dai dati disponibili da tali contatti emerge come la violenza sulle donne in Calabria, e in particolare nella provincia di Reggio Calabria, sia un fenomeno in larga parte sommerso e che si caratterizza prevalentemente come violenza in ambito familiare e si manifesta nelle molteplici forme della violenza fisica, psicologica, economica e sessuale. Tra i fenomeni che determinano la difficoltà di attuare interventi efficaci, la dipendenza psicologica ed economica dal maltrattante è, in gran parte dei casi, il motivo che inficia la capacità delle vittime dall’affrancarsi totalmente dalla situazione violenta. A ciò si aggiungono in molti casi le preoccupazioni del giudizio sociale, caratteristici di alcune zone della Calabria, e i grossi timori di ritorsioni per sé e per il proprio nucleo familiare di origine, soprattutto nei casi di maltrattanti riconducibili ad ambienti criminali. Ancora, dai dati rilevati dalle operatrici del servizio, l’età media delle donne maltrattate è di 30/35 anni, la loro nazionalità è prevalentemente italiana, la maggior parte di esse è poco alfabetizzata e molto disagiata sia dal punto di vista sociale che economico, seppur è noto la violenza sia un fenomeno trasversale. Molte delle donne accolte non ha avuto l’opportunità di confrontarsi col mondo del lavoro. In contesti del genere il percorso di empowerment personale e professionale è più complesso e di difficile attuazione. A questo si aggiunge la difficoltà a reperire opportunità lavorative economicamente adeguate, da garantire un reinserimento dignitoso, per le donne e gli eventuali loro figli. Oltre ai tempi lunghi dei procedimenti giudiziari, ciò aggrava la loro situazione anche in termini psicologici di immagine di sé determinando un allungamento del periodo di permanenza nella Casa Rifugio insieme ai loro figli, altrettanto vittime di violenza diretta e/o assistita, e la rinuncia – con l’allontanamento protratto – a quanto con fatica erano comunque riuscite a costruire, divenendo doppiamente vittime di una giustizia, spesso troppo garantista per il maltrattante e molto meno per la donna.

* responsabile Casa Rifugio

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