Avvenire di Calabria

Un racconto declinato da alcune immagini 'simbolo' del pastore della diocesi reggina dal 1950 per 27 anni

Monsignor Ferro, un presule in cammino con gli scout

Renato Laganà

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Volgendo lo sguardo al passato, tra le immagini fotografiche un po’ ingiallite che testimoniano gli anni di una giovinezza trascorsi nello scautismo cattolico, la figura di monisgnor Gio- vanni Ferro, arcivescovo di Reggio Calabria dal 1950 al 1977, emerge spesso in contesti e situazioni diverse. La gioia di un padre che accoglie i suoi figli, la semplicità e la fermezza di un pastore che guida il suo gregge, l’accoglienza in ogni momento, la spontaneità profonda che riusciva ad avvincerti, lo stile dei suoi gesti che riuscivano a farlo sentire, in ogni momento, sempre più vicino. Le immagini accompagnano la memoria che resterà scolpita nei nostri cuori sino all’ultimo battito, ma che dobbiamo esternare prima che l’oblio vanifichi il significato profondo dell’aver vissuto quelle occasioni di incontro. Esse sono state molteplici e lui è ancora presente in ogni luogo del cammino della nostra vita. Quattro immagini per ricordare, quattro temi che diventano occasioni di testimonianza.

L’accoglienza. In una attività all’aperto il vescovo è lì sorridente, tra i capi (Peppe e Teofilo), con in mano il totem del branco da consegnare alla sestiglia che si è distinta in una “caccia”. La memoria della mia accoglienza mi riporta ad un campo estivo presso l’antico sanatorio di Zervò, dove, prima della celebrazione eucaristica egli era disponibile per le confessioni. Le mie parole quasi sussurrate nel silenzio del bosco, la sua attenzione per rompere il timore iniziale, il suo conforto alla mia inquietudine mi tornano frequentemente nei ricordi. Quel giorno ho scoperto il grande tempio della natura dove il silenzio e il frusciare delle foglie sono la voce di Dio e gli alti fusti degli alberi sono le colonne di una struttura che, oltre la cima degli alberi, si eleva sino al cielo. La radura diventava il luogo dell’incontro e, presso l’altare da campo, le preghiere e i canti si alternavano ai suoni della natura.

La benedizione. Accompagnato dall’inseparabile monsignor Lia, l’arcivescovo raggiunse il luogo di una attività all’aperto: un campo scuola per la formazione dei futuri capi. I suoi scout sono attorno a Lui, stanchi, affaticati dal percorso di una route ed insieme elevano una preghiera al Signore. L’immagine dell’arcivescovo Giovanni Ferro benedicente è il segno vivo della forte spiritualità che il “pastore” riusciva a trasmettere a quei giovani che si preparavano a “servire”, testimoniando «in letizia e semplicità la propria fede e l’amore per i fratelli».

La sosta. La piccola casa di Melia lo accoglieva nei brevi momenti del riposo estivo, brevi perché diventavano sempre il punto di partenza per raggiungere i luoghi in cui la sua presenza era necessaria. Sfogliando la raccolta de L’Avvenire di Calabria e quella del quotidiano La Gazzetta del Sud, ho annotato le tante occasioni in cui, con il fido autista Alessio, il segretario Benito e i suoi instancabili giovani sacerdoti, raggiungeva i luoghi in cui doveva testimoniare la sua attività di pastore, non tanto per le festività, quanto in occasioni di tragedie umane. E spesso capitava ai gruppi di scout di percorrere la strada che da Scilla o da San Roberto portava verso i Piani dell’Aspromonte. Quel giorno dei primi di agosto del 1967, un gruppo di rover del Clan Montalto (Raffaele, Cesare, Gianni, Pino, Filippo, Renzo, e chi scrive in quel caso nelle funzioni di fotografo), scendendo dalla montagna verso Scilla, si fermarono a salutare il loro arcivescovo che li accolse benevolmente.

L’omelia. Gli anni erano trascorsi e ci ritrovavamo adulti presso la struttura dell’allora Seminario Pontificio Pio XI, per ricordare un anniversario del nostro gruppo, ancora insieme a Lui. Erano trascorsi circa venticinque anni dall’accoglienza e l’arcivescovo ci riconosceva uno ad uno. Le nostre storie erano la sua storia e ognuno di noi testimoniava quella “gioventù sana, generosa e forte” che lui aveva curato affidandoci a figure di sacerdoti (tra cui don Vincenzo Lembo e don Mimmo Morabito) capaci di interpretare, non solo nelle escursioni e nei campi, ma anche nell’affacciarci alla vita civile il pieno significato dello scoutismo. La celebrazione eucaristica ci riuniva ancora, scout e guide, i canti e le preghiere si susseguivano con il segno dell’innovazione, ma quel giorno fummo avvinti dall’omelia che lui, seduto tra noi, sviluppava sul tema della “strada”, a quel percorso della vita che va verso “orizzonti lontani”. Anche dopo la “partenza” si era riusciti a restare legati, tramite la “Comunità Brutia”, non solo dall’ideale, ma dal significato profondo che il buon pastore era riuscito a darci per “servire” la società anche nelle difficoltà del vivere quotidiano.

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