Domani in edicola fra fede e attualità: Scuola Biblica Paolina, sfide educative e celebrazioni mariane
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Oggi è Natale. Insieme al biblista, don Tonino Sgrò, riscopriamo il grande mistero che ancora stupisce. Con la venuta di Cristo si realizza il progetto che Dio ha voluto per ciascun uomo. «Rivelazione» e «grazia» i due modi per cogliere la luce del Messia.
L’incarnazione del Figlio di Dio è la nuova creazione del mondo perché l’Eterno irrompe nella storia. L’esordio del Prologo, con l’indicazione temporale «in principio», ricalca l’inizio di Genesi, ma non ci riporta alle origini del mondo, bensì alle sorgenti della vita prima dell’universo, perché descrive la vita stessa in Dio.
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Giovanni afferma che «era il Verbo»; Egli è la pienezza dell’essere, preesistente al mondo. Sappiamo dal complesso della Rivelazione che si tratta della seconda persona della Trinità, chiamata Logos. Questo termine per l’evangelista ha un contenuto teologico molto vicino all’idea biblica di sapienza, mediatrice della creazione e della salvezza. “Verbo” dice che Dio è relazione; il Logos, Parola del Padre, è il Figlio rivolto “verso” il Padre nell’atto di ascoltare.
La vita della Trinità non appare così statica ma dinamica, e tale movimento d’amore a un certo punto diventa creativo: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui». Ciò significa che, se il Verbo è il modello che il divin pittore ha contemplato per dipingere le creature, tutto è pervaso dall’amore divino. C’è un presentimento d’amore che dobbiamo cercare in ogni cosa, anche nelle realtà che a causa del peccato hanno perso la loro somiglianza col modello divino. Questa vita, comunicata agli uomini, viene definita «luce» che «splende nelle tenebre».
L’immagine suppone la persistenza dell’oscurità come realtà non tanto fisica quanto storica. Perché la luce non disperde completamente le tenebre? Di esse si dice semplicemente che «non l’hanno vinta», non che sono state spazzate vie; si suppone un combattimento tra bene e male, tuttavia quest’ultimo continua a sussistere. Forse dobbiamo partire da qui per comprendere il mistero dell’Incarnazione. «Non lo ha riconosciuto… non lo hanno accolto»: il Verbo non viene nel mondo con la potenza che si impone al di sopra di tutto e malgrado ogni cosa; rimane potente, come la luce, ma c’è sempre la possibilità di restare in una stanza al buio, o addirittura di chiudere gli occhi persino all’aperto, cioè di rifiutare l’amore.
Tale opposizione porterà anche all’eliminazione del testimone della luce, il Battista, perché per rigettare Dio non è necessario teorizzare l’ateismo, ma basta vivere l’ateismo pratico che coincide col rifiuto dell’uomo, e in particolare dell’uomo che comunica il mistero di Dio. Si tratta qui del profeta, ma anche del povero, dell’ammalato, dello straniero. Il vangelo ci dirà che esistono alcuni uomini che sono in maniera più vivida il prolungamento del Verbo incarnato, perché ne costituiscono le membra fragili e per questo più preziose.
«Perché tutti credessero per mezzo di lui»; è essenziale dunque il ruolo del testimone per poter accedere con fede alla luce. Perché credergli? Dovrebbe essere spontaneo amare la luce, il bene, la verità, ma il peccato è la somma stoltezza di preferire il male. Solo il contatto con la Parola dà l’intelligenza delle opere di Dio, la comprensione profonda del suo amore. E ogni Parola di Dio che accogliamo ci ricorda che siamo figli amati, anzi ci conferisce il «potere di diventare figli di Dio». «Grazia e verità» sono gli ulteriori attributi del Verbo, e ci attestano che esistono solo questi due modi per attingere la vita e la luce di cui Egli è portatore.
Il primo è entrare nella logica del dono gratuito, perché essa è la logica di Dio e deve diventare la maniera con cui noi ci rivolgiamo “verso” i fratelli: questo fare è divino. Il secondo non è altro che sposare in ogni scelta particolare la forza dell’universale verità dell’amore: dovunque tu sei vero, il Verbo si fa carne in te. Attraverso quali atteggiamenti tale mistero prende carne in noi? Anzitutto lo stupore, paragonabile a quello che affiora nell’animo di coloro che ascoltano l’annuncio dei pastori: il Natale tocca soltanto cuori che non sono schiavi del prevedibile e del controllabile, ma aperti al nuovo.
Poi la custodia di tale mistero, come Maria insegna, la quale collega gli eventi riguardanti Gesù e ne coglie il significato secondo il progetto di Dio. Quindi la maturazione del senso della nostra figliolanza. Il figlio è una persona liberata dall’amore del Padre. Matteo nella domenica della Santa Famiglia presenta Gesù come Colui che ripercorre il cammino del popolo: Abramo, i figli di Giacobbe e Mosè scesero in Egitto e da lì risalirono; Israele sperimenta proprio in quella terra di schiavitù la sua rinnovata condizione di figlio amato e liberato; Cristo è il Messia nel quale si compie definitivamente l’evento della liberazione.
PER APPROFONDIRE: Natale, Morrone: «In Gesù riconosciamo il Dio che chiama alla vita»
Entrare in Egitto anche per noi significa entrare in una qualche morte, ma soffrendo possiamo elevare il nostro grido al Padre e tornare a sentirci figli, attendendo con fiducia la sua liberazione. Siamo dunque figli generati dall’amore gratuito di Dio, e proprio questo ci rende capaci di generare a nostra volta il Verbo agli altri: chi accoglie con fede «un bambino nato per noi… un figlio » (Is 9,5), è già passato dalla sterilità alla fecondità della vita.
* biblista
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Sono stati giorni anche di scambio di conoscenza ed esperienza sul campo per i presenti
Ad illustrarlo il commissario della Fondazione Anton Giulio Grande e il direttore Luciano Vigna La