Avvenire di Calabria

Arrestate cinquanta persone ritenute organiche della nuova cosca di Brancaleone

‘Ndrangheta, la Dda blocca la generazione dei ‘Cumps’

Federico Minniti

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Nome in codice: “Cumps”. Così si definivano i sodali del clan di Brancaleone, in provincia di Reggio Calabria, composto dalle nuove leve della 'ndrangheta. A svelarne l'esistenza è stata l'operazione “Banco Nuovo”, diretta dalla Direzione Distrettuale Antimafia reggina che ha coordinato le indagini congiunte della Squadra Mobile e del Reparto Investigativo dei Carabinieri che hanno portato all'arresto di cinquanta soggetti ritenuti organici al Mandamento Ionico.I “Cumps”, derivazione social di “compare” che indica l'appartenenza ad una società di 'ndrangheta, erano soggetti pericolosi che facevano della violenza tracotante il loro biglietto da visita. Camminavano armati fino al collo, a tal punto da esplodere alcuni colpi di arma da fuoco in pieno giorno solo per farsi “sentire” dalla popolazione oppure simulando una rapina di qualche caramella per sfidare le Forze dell'Ordine. Roba da fiction e il confine tra realtà e finzione era la linea sottile sulla quale camminavano: basta visitare i loro profili Facebook - tutti passati al setaccio dagli inquirenti - che li ritraggono impugnare le loro armi o fare i viveur tra night-club e discoteche. A guidarli due baby-boss, Nicola Falcomatà, 29 anni, e Paolo Benavoli, 28 anni: erano loro ad aver avviato la nuova locale di 'ndrangheta di Brancaleone all'indomani della pace dopo la faida di Africo-Motticella. Si tratta di un gruppo autonomo, dedito a tutte le attività convenzionali della 'ndrangheta come le estorsioni e il narcotraffico che nasceva come “esigenza” delle famiglie malavitose del territorio che si erano dimostrati insofferenti verso gli “africoti”, ossia i discendenti di Giuseppe Morabito, i capi-locale per conto della Santa, l'organizzazione di vertice delle 'ndrine. In realtà, i capi dei “Cumps” erano legati alla famiglia dei “Tiradrittu” per via dei Mollica; grazie a questo riconoscimento nelle gerarchie mafiose avevano potuto addentrarsi nelle dinamiche criminali. E dai clan storici avevano anche mutuato la prassi di controllo del territorio; se Benavoli e Falcomatà, infatti, erano i vertici dell'ala militare, a controllare Brancaleone e i paesi limitrofi ci pensavano i fratelli Annunziato, Giuseppe e Pietro Alati, quest'ultimo funzionario dell'amministrazione comunale e finito in manette in quanto “manipolatore” degli appalti pubblici a favore del proprio clan. Se i giovani imitano le scene di “Gomorra” in piazza, i fratelli Alati si permettono di interrompere una seduta della Giunta Comunale di Brancaleone, come accade il 10 luglio 2014, per inveire contro il Sindaco e gli Assessori: «Se non lavoriamo noi, qualcuno si fa male», urlava Giuseppe Alati contro gli amministratori pubblici, inferocito per un appalto “finito” ad un'altra impresa. Le manutenzioni idrico-fognarie erano “cosa” degli Alati che avevano persino provato ad inserirsi nel rifacimento della facciata della locale stazione dei Carabinieri. Imprenditori-mafiosi spregiudicati, a tal punto da compiere ben sedici estorsioni ad altrettante imprese per disincentivarle a operare a Brancaleone. Gli Alati, però, dovevano mantenere i patti. Anche perché gestire gli appalti non era solo un fatto economico, ma anche di prestigio criminale. Tutte le forniture pubbliche che superavano la «soglia» di 150mila euro erano ad appannaggio dei Morabito, così aveva deciso la Commissione provinciale della 'ndrangheta. Una regola che gli “africoti” avevano infranto in occasione della costruzione della nuova ala del cimitero di Bruzzano: un gesto che creò frizioni, ma che era un segnale di potere rivolto ai “Cumps”. Le giovani leve, seppur alle prese con i contrasti interni, non erano mancate di espandere il proprio operato: poliziotti e carabinieri hanno eseguito ordinanze di fermo anche in Lazio, Lombardia e Liguria.

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