Avvenire di Calabria

L’imprenditore e testimone di giustizia allontana l’idea del professionista antimafia. «Sono solo un cittadino»

Nino De Masi lancia il suo appello: «Ribelliamoci, basta alibi»

Davide Imeneo e Federico Minniti

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Le cataste di container si scorgono dalla finestra del suo ufficio. Dall’esterno sono una montagna multicolor accanto a una tenda verde militare. È il presidio dell’esercito davanti al cancello dell’attività imprenditoriale di Nino De Masi, testimone di giustizia.

«Ma qui non viene più nessuno – ci spiega sorridendo De Masi – così come non entra nessuno nel negozio al dettaglio a Rizziconi. Noi siamo gli “appestati”, i tragediatori – per usare il gergo mafioso – se possono evitare di salutarti, lo fanno pure». Così il Porto di Gioia Tauro, che è esattamente alle spalle dell’azienda De Masi, sembra imprigionare una realtà cruda, ritraendola nell’asprezza di una vita sotto scorta.

De Masi che per libertà ha denunciato, adesso non è più libero di vivere la sua terra.

Eppure «non sono un eroe, un “professionista dell’antimafia” – dice in esordio citando Leonardo Sciascia – anzi: sono un normale cittadino, sto facendo il mio dovere». Un racconto amaro, il suo, che non cela la paura, ma al contempo che non manca dell’orgoglio necessario per restare con la schiena dritta, nonostante tutto.

«Chi tocca De Masi, tocca uno di noi». Il 3 maggio 2013, Cafiero De Raho esordì così da Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria. Cosa è cambiato da allora a oggi?

Partiamo con una premessa: questa gente che è stata arrestata e condannata, non è finita in carcere per le mie denunce, ma per le azioni criminali che loro hanno fatto.

Personalmente non ho mai avuto l’ansia da personaggio; ciò che mi è interessato è sempre stato vivere del mio lavoro. Fortunatamente c’è una parte di Stato che è pronta a difendere la mia dignità. D’altro canto cerco di sopravvivere in una condizione estrema, combattendo, ma restando sempre dentro i paletti della legalità.

In Procura sono convinti: la ‘ndrangheta si sconfigge solo con l’aiuto degli imprenditori onesti

Vi racconto un aneddoto.

Quando, nel 2007, il presidente di Confindustria Sicilia, Ivan Lo Bello, lanciò il famoso slogan che affermava di «espellere» coloro che pagano il pizzo dall’associazione degli industriali, personalmente andai nella sede di Reggio Calabria. All’epoca ero presidente della sezione di Metalmeccanica e provocai l’allora presidenza affermando di essere d’accordo con la linea siciliana, ma che noi a Reggio avevamo un altro problema.

Quale?

Prima dobbiamo espellere chi incassa il pizzo. Non ha senso cacciare le vittime e tenersi i carnefici. Sapete come finì? Che alla fine cacciarono me.

Cosa vuole dirci con il racconto di questo episodio?

Cosa c’è dietro il mondo dell’impresa collusa? Non ci sono conflitti sindacali, non ci sono problemi di competitività, non ci sono problemi di costo del lavoro.

Eppure queste attività, agli occhi della gente, «generano ricchezza»: essere colluso apparentemente conviene, ma in realtà massacra e distorce l’economia.

In questo contesto socio– lavorativo c’è una Calabria che si sta spopolando.

L’assenza di investimenti è strettamente collegato alla presenza della ‘ndrangheta.

Parlo con rabbia perché sono vent’anni che discutiamo di questo argomento. Mi chiedo e vi chiedo: ma se voi aveste un capitale da investire perché lo fareste proprio in Calabria?

Analizziamo i pro e i contro: non c’è un elemento razionale che ti possa indurre a creare occupazione in questo territorio.

Insomma, ci sono poche speranze dal suo punto di vista.

In realtà andrebbe capovolta la prospettiva. Andrebbe applicato il concetto di Vàclav Havel del «potere dei senza potere». La società civile, purtroppo, ha paura di fare una netta distinzione tra gli onesti, i collusi e i mafiosi così come la politica che oggi risulta piegata alle volontà criminali. La verità è che non siamo pronti alla rivoluzione sociale perché le valigie ai giovani le hanno messe in mano gli adulti di oggi; gli stessi che per troppi anni «si sono girati dall’altra parte».

L’omertà è la roccia su cui fonda il proprio potere la ‘ndrangheta.

Io non condivido, ma capisco che, per paura, se vede un omicidio, qualcuno può girarsi dall’altra parte così come se capita nel bel mezzo di una rapina possa dimenticarsi il volto del criminale, ma mi chiedo: come si può tollerare – riferendosi alla recente operazione “Stige” – che sotterrino autotreni di veleni sotto le nostre case, le nostre scuole, e continuiamo a fare finta di niente? Che cosa aspettiamo ad alzare la testa?

Come si può sensibilizzare quella società civile che ancora non riesce a essere un «esercito critico» contro i clan?

Bisogna provocare; mettere il sale sopra la ferita. In questo i mass–media hanno un ruolo fondamentale: se continuiamo ad affermare che esiste un futuro partendo da queste pre– condizioni, allora continuiamo a dire il falso. Oggi è più che mai urgente smetterla di darsi degli alibi. Il destino non cambierà le cose per un semplice motivo: il destino non esiste.

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