Avvenire di Calabria

Quel sorriso disarmante con cui accoglieva i liceali

Mimmo Gangemi

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Vissi alla Casa dello Studente dell’arcivescovado i miei giorni migliori, a metà degli anni ’60, quando frequentavo il ginnasio nel vicino liceo Tommaso Campanella. Abitavamo lì studenti provenienti dall’intera Calabria. Per accedere alla grossa struttura a L, a due piani, tra via Campanella e via Aschenez, il monumentale portone adiacente la libreria delle Paoline, appena dopo il Duomo, e la scala fino al grande cortile dell’Arcivescovado. Ne aveva la responsabilità don Italo Calabrò, presidente della Pontificia Opera di Assistenza. Dormivamo nelle stanzette al livello superiore. Pranzo e cena alla mensa, al piano terra. La cena era solo per noi interni. Il pranzo, don Italo lo aveva allargato ai bisognosi, ai derelitti, ai senza famiglia. Incontravamo strani personaggi, con disabilità psichiche, motorie, o con il solo disagio di vivere. Uno era ‘Mberto, un clochard che clochard era in tutto, vestito di stracci, barba nera e lunga, capelli unti e disordinati, a cespuglio.

Lo si vedeva sempre sui marciapiedi del Corso a tendere la mano del bisogno al cuore caritatevole dei passanti, seppure fantasia popolare lo volesse proprietario di beni immobili a non finire, acquistati con i proventi dell’elemosina! – quella di clochard fu tradizione di famiglia: al suo mancare, ne prese il posto Maria Cacciola, la sorella. Certe sere, per sedare l’insorgere di proteste per il vitto che non ci piaceva – forse erano però gli anni giovani a pretendere irrequietezza e dissenso – don Italo stilava assieme a noi il menu della settimana. Già al primo approccio, ci disarmava, la sua serenità frantumava le passioni di guerra. A scadenza mensile, ci portava su nel Vescovado da monsignor Ferro, di cui era Vicario, per parole di bontà e di sprone che ci rendessero più fermo un cammino le cui grandi linee già lui, don Italo, aveva tracciato, indirizzato nelle scelte future, nei percorsi che vedeva più congeniali a ciascuno di noi. Una sera Martinez lasciò me e Giglio senza cena – aveva dimenticato che saremmo rientrati in ritardo. Ce ne arrabbiammo più di quanto meritasse il presunto torto subito.

E andammo a protestare da don Italo, la cui casa era in via Paolo Pellicano, nei pressi di piazza Castello – quella che, alla sua scomparsa, passò all’associazione Agape da lui fondata, e che oggi è anche sede di Libera. Ci invitò a entrare, ascoltò paziente le lamentele. Oppose alla nostra rabbia il misurato sorriso che sempre lasciava indifesi, e presto sconfitti pur nella confusione di teste che friggevano rancore.

«Qual è il problema?» sminuì. E subito chiese all’anziana madre di cucinare qualcosa per noi. Un uomo buono e generoso, don Italo. E indimenticato e indimenticabile. Trent’anni dalla morte e un’intera città ancora lo accarezza nel ricordo, è fiera d’averlo conosciuto, ascoltato, si è permeata di lui, della carità cristiana di cui ha ornato la sua esistenza.

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