Avvenire di Calabria

L’attesa del Kyrios ci riporta alla radici spirituali della nostra spiritualità

Riscoprire l’Avvento, «grembo» della fede

Non cedere mai alla tentazione dell’abitudine Il Signore viene tra gli uomini

Enzo Petrolino

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Per Newman il nome del cristiano è colui che attende il Signore. Invece da secoli, in oc- cidente, l’attesa della venuta del Signore è una dimensione perlopiù assente nella vita di fede dei cristiani. Era il rammarico di Ignazio Silone che scriveva: «Mi sono stancato di cristiani che aspettano la venuta del loro Signore con la stessa indifferenza con cui si aspetta l’arrivo dell’autobus». L’Avvento oggi lo si è ridotto a tempo di preparazione alla festa del Natale, non si comprende che è la chiave di tutto l’anno liturgico: per comprendere le feste della manifestazione del Signore nella carne, i fatti che hanno preceduto la nascita, la nascita a Betlemme, la manifestazione ai Magi, il battesimo nel Giordano fino alle nozze di Cana. Capiti nella loro intelligenza spirituale, i testi liturgici dell’Avvento esprimo non l’attesa di una nascita P già avvenuta nella storia una volta per tutte, quanto piuttosto l’attesa della definitiva venuta di Cristo nella gloria.

Domandiamoci: ma com’è possibile che la liturgia cristiana, che è sempre memoriale della morte e risurrezione di Cristo finché egli venga, faccia di noi cristiani gente per la quale il Signore non è ancora nato e dobbiamo attendere la sua nascita? La nascita non la si attende, ma la si commemora, ciò che si attende è invece la parusia che è il compimento del mistero Pasquale. La spiritualizzazione dell’escatologia ha portato i cristiani a soffrire di un male grave: l’amnesia della parusia. Do- mandiamoci è l’Avvento di Dio? Cerchiamo realmente Dio nel nostro futuro? Siamo uomini dell’Avvento, che hanno nel cuore l’urgenza della venuta di Cristo, cercando negli orizzonti della propria vita il suo volto? In realtà l’Avvento è il solo specifico cristiano, perché un tempo di digiuno e penitenza come la Quaresima la condividiamo con l’islam, il tempo della Pasqua con l’ebraismo, ma l’attesa della venuta del Kyrios è solo cristiana. Solo noi cristiani attendiamo il ritorno di Cristo da lui stesso promesse: «Sì vengo presto! Amen». Per questo, privare l’anno liturgico della sua costitutiva dimensione escatologica significa sottrarre alla fede cristiana la dimensione della speranza.
 
Così compreso e vissuto, l’Avvento sarebbe il tempo dell’anno liturgico più eloquente per i credenti di oggi. Uomini e donne che faticano a sperare perché privati di ogni speranza, a volte perfino incapaci di sperare. Lo sappiamo, la fatica a credere ad avere fiducia negli altri, nella vita, nel futuro, è uno dei tratti che caratterizzano l’uomo e la donna occidentali dei nostri giorni e questo non può non segnare anche la fede del credente contemporaneo. Dobbiamo comprendere che l’anno liturgico mette la fede in cammino, in un preciso contesto culturale e sociale nel quale viviamo. Bisogna comprendere che le nostre liturgie, sono oggi chiamate ad ospitare un modo di vivere la fede, che non è più, come un tempo, la somma di certezze incrollabili ma è l’espressione di un desiderio di qualcosa e di qualcuno in cui poter sperare. Nutrire la speranza, oggi, è il compito primo dell’anno liturgico, dare ragioni per alimentare per esercitarsi a credere che si sono realtà non visibili, e queste realtà sono la nostra salvezza. Solo la speranza nella vita eterna ci fa propriamente cristiani, ha scritto Agostino.
 
Oggi è molto difficile parlare di speranza, dare ragioni per speranza, eppure questo è il compito oggi dell’anno liturgico, perché la mancanza di speranza rende l’uomo estraneo al tempo, irrimediabilmente assente a questo tempo presente. La speranza è esattamente questo: volere infinitamente il finito, è vivere eternamente il tempo.
 
* Segretario Commissione ecumenica regionale

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