Avvenire di Calabria

Si chiamava Jaiteh Suruwa e aveva 18 anni la vittima del rogo di San Ferdinando, morto nell'incendio della baracca in cui dormiva

Rogo di San Ferdinando: chi è la vittima Jaiteh Suruwa

Toni Mira

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"Voglio fare cose buone". Così Suruwa Jaiteh rispondeva agli operatori dello Sprar di Gioiosa Ionica quando gli chiedevano cosa volesse fare nella vita. Da febbraio viveva nella cittadina sullo Jonio, dopo essere stato in uno Sprar per minorenni a Stilo. Invece nella notte tra sabato e domenica è morto nell'incendio della baraccopoli di San Ferdinando, sul Tirreno, dall'altra parte dell'Aspromonte, a 40 chilometri di distanza.

Aveva appena 18 anni, veniva dal Gambia, e stava ricostruendo la sua vita attraverso un percorso concreto di integrazione all'interno della comunità gioiosana, tra scuola di italiano e campo di calcio. Ed è morto proprio nella giornata in cui le Nazioni Unite celebrano l’abolizione della schiavitù e dello sfruttamento. Morto in una baracca di legno e plastica, nel ghetto dei braccianti africani sfruttati da caporali e imprenditori senza scrupoli. Il ragazzo, invece, era ospite di una delle migliori realtà di accoglienza e integrazione. Andava a scuola, giocava a calcio, aveva da poco ottenuto la protezione umanitaria (uno degli ultimi, visto che è stata abrogata dal "decreto sicurezza"), e stava per ottenere la proroga per restare altri sei mesi nello Sprar. Era già pronta una borsa lavoro, per cominciare a febbraio il cammino dell'autonomia. "Il suo desiderio era di andare in Germania", ci dicono gli operatori. Invece la sua vita è finita tra le fiamme della baraccopoli.

Era lì per trovare un cugino e altri connazionali. Perché la tendopoli/baraccopoli è una piccola Africa, dove ritrovarsi, comprare prodotti etnici, sentirsi tra amici. Ma è anche tragedia incombente. Faceva freddo. Forse un bracere o una stufa hanno innescato l'incendio. A bruciare sono state solo otto baracche, grazie all'intervento degli stessi immigrati che hanno bloccato le fiamme con secchi d'acqua e palate di terra. Poi l'arrivo dei vigili del fuoco. La sfortuna di Suruwa è stata di trovarsi in una baracca di teli di plastica. Tutto attorno, infatti, sono fatte di lamiere. E le lamiere sono l’unica novità della baraccopoli rinata per l’ennesima volta dalle ceneri dopo lo spaventoso incendio del 27 gennaio che si portò via la vita di Backy Moses e centinaia di baracche. "Così è più difficile che brucino", ci aveva spiegato Kanagi.

Ma d’estate farà caldissimo lì dentro. "Meglio il caldo del fuoco", era stata la secca risposta di Musa, altro giovane maliano. E le lamiere erano state la causa della morte il 2 giugno di Soumaila Sacko, ucciso a fucilate mentre ne prelevava alcune dalla fornace abbandonata di San Calogero. Tre morti in meno di un anno, tre morti in questo "non luogo" uguale a se stesso da nove anni, dalla rivolta degli immigrati contro lo sfruttamento e contro la violenza della 'ndrangheta. Il dramma di Suruwa contiene in sè due storie, due facce della stessa medaglia. Da un lato la conferma della qualità e efficacia degli Sprar, proprio quelli che il "decreto Salvini" di fatto sta ridimensionando.

Come ci spiega il bravo sindaco di Gioiosa Ionica, Salvatore Fuda. "Abbiamo una ventina di persone in uscita, per conclusione del loro percorso di 6 mesi prorogabili, su 75 previsti. Per colpa del decreto i posti resteranno vuoti perchè non ci sarà più l'umanitaria. Potranno entrare solo le persone con l'asilo, molto poche". E gli altri, denuncia il sindaco, "finiranno per strada o nelle grandi metropoli o nei ghetti come quello di San Ferdinando. Questo decreto genera solo emarginazione e insicurezza che si scarica su noi sindaci che accogliamo. Ma ora non vorrei che questa vicenda fosse strumentalizzata per dire che gli Sprar non servono a niente, perchè poi finiscono lì. È vero proprio il contrario".

Intanto per l'ennesima volta si annunciano iniziative per San Ferdinando. Il prefetto di Reggio Calabria, Michele di Bari, ha convocato presso il municipio del comune della Piana di Gioia Tauro, il Comitato provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica. Ricordiamo che oltre al rogo del 27 gennaio altri incendi avevano colpito la baraccopoli il 7 dicembre 2016 e il 3 luglio 2017. Ma nulla è cambiato. E anche la nascita di una nuova tendopoli non ha risolto la situazione. Appena 500 posti, mentre nella vecchia tendopoli/baraccopoli si superano i 1.200. Dopo il dramma di Suruwa i migranti sono nuovamente scesi in piazza, protestando sotto il municipio mentre era in corso la riunione. Per chiedere soluzioni strutturali e non le solite emergenziali. Ma dall'incontro sono uscite proposte uguali a quelle di meno di un anno fa dopo la morte di Backy Moses. Si conferma, ancora una volta che "l'obiettivo finale è lo smantellamento della baraccopoli".

E poi che è stata "presa in considerazione la possibilità di trasferire gli immigrati presenti presso la baraccopoli in altro sito da allestire con strutture temporanee per l’accoglienza. In tale ottica, concretamene perseguita - prosegue la nota della prefettura - è stata avanzata l’ipotesi di utilizzare un’area alternativa a quella attualmente occupata e, al riguardo, si attendono le verifiche previste sull’individuazione di un sito idoneo". In realtà un sito sarebbe stato già individuato come veniva spiegato in un comunicato di appena cinque giorni fa.

"È stata approfondita la possibilità di utilizzare, quale area alternativa a quella attualmente occupata, peraltro ricadente in zona ZES, un terreno di proprietà del CORAP (Consorzio regionale per le attività produttive, ndr)". Si tratta di un'area vicino al termovalorizzatore di Gioia Tauro. Qui andrebbero sistemati dei container, a cura della regione, ma per non più di 5-600 persone. E le altre? Si tratta infatti di smantellare non solo la baraccopoli ma anche la nuova tendopoli, costata 300mila euro, per liberare le aree destinate alla ZES (Zona economica speciale). Migliaia di persone. E proprio ora con la stagione della raccolta degli agrumi a pieno ritmo. Ancora una volta un dramma riporta l'emergenza in primo piano. Un'emergenza che va avanti da decenni e la cui soluzione appare lontana.

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