di Leonardo Bonanno, vescovo di San Marco Argentano – Scalea * Rovito è uno dei casali di Cosenza sorti intorno all’anno mille sui colli circostanti la capitale del Bruzio. La sua storia può vantare filosofi come Tommaso Cornelio, eroi come i fratelli Bandiera, giureconsulti, ecclesiastici e tanti altri uomini illustri, figli di una terra generosa e forte, ben radicata nell’alveo della fede cristiana. Tra le tante opere di fede e di arte ne è testimone la monumentale chiesa di Santa Barbara (XVI secolo), che nelle sue linee architettoniche ripropone il legame spirituale con il duomo di Cosenza e domina l’operosa Valle del Crati. Nell’autunno del 1974 da giovane parroco di quella piccola parrocchia conobbi Gianfranco De Maio, allora adolescente, che potei seguire per quindici anni, mentre andava sviluppandosi la sua solida formazione umana e cristiana, ricevuta da papà Mario medico condotto e da mamma Ermilla, insegnante proveniente da Pordenone. Aderendo all’Azione cattolica ne seppe cogliere lo spirito che lo chiamava ad essere fin da allora «il primo in tutto per l’onore di Cristo Re». Lo fu negli studi liceali al Telesio della città, così come fu il primo nella graduatoria nazionale degli ammessi alla facoltà di medicina dell’università cattolica, dove si specializzò in neurologia e vi esercitò la professione per alcuni anni. La statura intellettuale e morale del giovane non sfuggì al magnifico rettore di quella feconda stagione per la Chiesa postconciliare, Giuseppe Lazzati, oggi servo di Dio, del quale seguì le lezioni di spiritualità ad Erba. Il piccolo eremo della Brianza, quasi ideale collegamento con il colle di Rovito, per il professor Lazzati rappresentava la cattedra privilegiata per il suo servizio di educatore dei giovani, tra i quali il nostro caro, per il loro serio discernimento vocazionale. All’inizio del terzo millennio il dottor De Maio, specializzatosi in malattie tropicali, entrò a far parte del “Movimento Internazionale Medici senza Frontiere”, recandosi nelle più disagiate regioni del mondo, dall’Africa all’America Latina. Egli sapeva trasmettere serenità e coraggio tra gli ultimi, specialmente quelli che chiamava “i sopravvissuti” dalle torture, accompagnando gli aiuti con il suo inconfondibile sorriso, secondo l’esempio di Madre Teresa di Calcutta. Il rito dell’esequie, è stato da me presieduto nel giorno in cui la liturgia ricorda San Carlo Lwanga e suoi ventuno compagni martiri dell’Uganda, canonizzati da Paolo. Con la tristezza nel cuore, pieno di ricordi, ho presentato all’assemblea orante un profilo di Gianfranco: uomo dal cuore libero, che con mitezza, rettitudine e coraggio, si è fatto messaggero di giustizia nella sua missione per il mondo. Mi rendevo conto che anche a me da quel giorno era venuto a mancare un fratello minore, per il forte legame spirituale intercorso tra noi, mai incrinato né tantomeno interrotto. Alla cara mamma e ai fratelli Betty e Claudio, così come a tutti coloro che piangevano la dipartita del parente o amico, ho ribadito la interiore certezza che Gianfranco, appena sessantenne, aveva ormai varcato l’ultima “frontiera della vita” sapendo che il giudizio di Dio verterà soltanto sull’amore. Al momento del congedo il parroco don Franco Greco, anche a nome dell’arcivescovo di Cosenza, ha assicurato ai familiari di Gianfranco il suffragio per la sua anima eletta e l’affettuosa partecipazione al loro dolore.