A Reggio Calabria esiste la parrocchia di Spirito Santo che da il nome a un quartiere attiguo al centro cittadino
La storia della parrocchia di Spirito Santo: una comunità di “focolari”
Nel corso dei secoli tanti aneddoti si sono avvolti attorno all'edificio di culto simbolo del rione particolarmente amato
di Renato Laganà
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A Reggio Calabria esiste la parrocchia di Spirito Santo che da il nome a un quartiere attiguo al centro cittadino. Nel corso dei secoli tanti aneddoti si sono avvolti attorno all'edificio di culto simbolo del rione particolarmente amato dai propri fedeli.
Spirito Santo, la storia della parrocchia reggina
La nostra ricerca storica, a firma dell'architetto Laganà, si muove ancora nell'alveo della vallata del Calopinace. Questa volta la penna dell'esperto si sofferma sulla storia della parrocchia di Spirito Santo.
Dopo aver visitato le chiese di Santa Caterina e di Santa Maria del Pilerio il 29 marzo 1595 l’arcivescovo Annibale D’Afflitto raggiungeva, proseguendo lungo la contrada Rodà, la chiesetta dello Spirito Santo, proprio nella località che oggi costituisce il quartiere di Spirito Santo della città di Reggio Calabria.
Lo accolse il cappellano, il sacerdote Pietro Merlo che veniva remunerato ventisei ducati annualmente per il suo servizio, dei quali quattordici derivavano dai redditi della chiesa e gli altri dodici dalle elemosine dei «pii fedeli». Nella chiesa vi erano tre altari: quello maggiore con «un quadro grande in tavola» che raffigurava lo Spirito Santo, e due altari laterali, uno «in cornu epistolae» (sulla sinistra) con una icona della Madonna dell’Itria e l’altro «in cornu evangelii» (sulla destra) con un crocifisso.
Sugli altari erano disposti sei candelieri di legno e, sui lati di quello centrale erano collocati due candelieri grandi con due «angeletti per candeliero». Ricca era la dotazione di paliotti per decorare l’altare dei quali due erano in ormesino (seta leggera pregiata) uno nei colori bianco e azzurro e l’altro rosso; due erano in cuoio con impressi al centro in uno l’immagine della Trinità e nell’altro il Crocefisso; uno più antico in tela dipinta e un altro ancora in fustagno.
Vi era una buona dotazione di paramenti sacri e di oggetti sacri per i quali necessitava «una cascia» per custodirli. Sulle pareti c’erano un altro quadro della Madonna e un piccolo quadro su tela raffigurante San Rocco. Il campanile che ospitava la campana grande era sul lato della facciata principale e il muro corrispondente necessitava di restauri tanto che l’arcivescovo sollecitò che «s’accomodasse».
Cinque anni dopo, nel corso della successiva visita pastorale, la relazione della visita offriva indicazioni più dettagliate sulla chiesa. Essa era stata costruita per iniziativa di alcuni devoti che, come nelle altre chiese della zona, provvedevano a eleggere ogni anno, il giorno della festività della Pentecoste, due o più «magistri» con il compito di amministrare la chiesa e di indicare il cappellano, la cui remunerazione era intanto aumentata a 31 ducati per assicurare la celebrazione giornaliera delle messe.
Nell’anno 1600 reggevano la chiesa Giuseppe Cumbo e Giovanni Bernardo Morisciano ed era cappellano il sacerdote Filippo Malavendi. I redditi della chiesa derivavano da lasciti fatti nel corso degli ultimi anni del secolo XVI, perfezionati con atti notarili, come quelli di suor Rosella Morisciano per 15 aquile annue su un giardino in contrada Asparella e per 5,5 aquile annue su una vigna sita il S. Giovanni di Bruzzano (sopra Gallico) con il vincolo della celebrazione di messe nei giorni di lunedì e di sabato.
Altri proventi provenivano dal lascito di Iacopello Francaviglia, che garantiva altre 15 aquile per anno sui beni lasciati al figlio dottor Francesco per la celebrazione di una messa il giorno di martedì, dalla rendita annua di cinque ducati lasciata da donna Lisetta Fallara su un giardino sito nella stessa contrada Rodà, dalla rendita annua di 2 ducati lasciati da Marsilio Dattila su un giardino sito nella contrada Ragaglioti, dalla rendita annua di 1 ducato lasciata da Antonello Castelli su un giardino sito in contrada Castrosciano nel territorio di Motta San Giovanni. Altre 7,5 aquile provenivano da un lascito di Lorenzo Pensabene di Sambatello.
Le dimensioni della chiesa non si discostavano dal modulo già individuato per le altre chiese dell’area e misuravano 40 palmi in lunghezza per 26 palmi di larghezza (11 x 7 metri). La sua descrizione mette in risalto che essa era «bene ornata» ed aveva l’altare maggiore preceduto da una balaustra con un cancelletto ligneo e su di esso era collocata una grande icona dipinta su una tavola dorata con la raffigurazione dello Spirito Santo con la «gloriosissima Vergine e gli apostoli».
La dotazione di paramenti sacri e suppellettili appariva arricchita anche grazie alle donazioni fatte da suor Caterinella, suor Lucrezia e Antonina Morisciano che avevano dato «di elemosina» una pianeta di «fostagno turchino con la fascia verde con la stola e manipolo seu fostagno cambiante» e due drappi di seta «per su li balaustri di colore giallo et torchini novi». La sistemazione liturgica dell’interno della chiesa non soddisfaceva il presule che giudicava poco funzionale la presenza dei due altari laterali a ridosso di quello centrale.
Egli ordinò di ampliare l’altare maggiore di «mezzo palmo per parte», di realizzare una predella in legno, di eseguire una «credenzola per tener l’ampulletti et li vestimenti del sacerdote» e di disporre una tabella riportante «l’antifona, versicolo et responsorio con l’oratione dello Spirito Sancto». Tutto ciò doveva essere eseguito entro due mesi dal cappellano che rischiava la pena di otto giorni di carcere e la sospensione dalle celebrazioni se non avesse ottemperato a quanto richiesto.
Nella successiva visita fatta nell’ottobre 1616, l’arcivescovo D’Afflitto trovò che a reggere la chiesa erano i procuratori Giovanni Paolo Trapani, Francesco Spanò di Agamennone, Giovan Matteo Foti e Alfonso Logoteta, eletti ogni anno alla presenza del Vicario episcopale il giorno della festa di Pentecoste, mentre il cappellano era il sacerdote Paolo Cinneri. Gli altari laterali erano stati rimossi e al loro posto sulla destra un grande crocefisso ligneo era appeso al muro con accanto il quadro della Madonna e, sulla sinistra, il quadro dipinto in olio di San Rocco.
Dallo stesso lato si accedeva nella sacrestia che appariva ben organizzata anche se necessitava di attenzioni per garantirne la chiusura durante le celebrazioni. Il corredo dei paramenti e degli oggetti sacri si era accresciuto con altri elementi realizzati in seta di produzione locale. All’interno della chiesa andava tuttavia aggiunto un confessionale, da eseguirsi secondo le indicazioni liturgiche.
Nell’aprile 1628, come riporta la relazione della Visita pastorale, erano procuratori Giovanni Domenico Filocamo, Antonio Morisciano, Giuseppe Siclari, Paolo Romeo e Francesco Morisciano e svolgeva le mansioni di cappellano il sacerdote Paolo Musco. In quegli anni, attorno alla piccola chiesa si era accresciuto il villaggio ai piedi della dorsale della collina che risaliva dalla pianura alluvionale del Calopinace verso i piani di Condera.
Una comunità di «focularia»
Nel corso della visita fatta nell’anno 1632 anche nelle parrocchie della zona del Calopinace, l’arcivescovo Annibale D’Afflitto, accogliendo l’istanza della popolazione che manifestava difficoltà a raggiungere la sede parrocchiale di San Giorgio dei Golfieri, posta all’interno della cinta muraria, erigeva la chiesa dello Spirito Santo a sede parrocchiale definendo un reddito parrocchiale di circa venti ducati garantiti dai censi «bollali» e dei censi «perpetui» che venivano versati annualmente dai conduttori di giardini e terreni vincolati da lasciti di benefattori, spesso finalizzati alla celebrazione di messe in suffragio degli stessi.
Alla parrocchia passava anche la dotazione dei «iocalia» (paramenti e oggetti sacri). I confini della stessa furono così definiti: «Incominciando dalle case et giardino di Paulo Logoteta inclusine, uscendo direttamente al fiume di Calopinaci, et passando la fiumara a quella parte pigliando lo molino di Gio. Domenico Filocamo inclusine intendendisi a li pendenti della via che si va a San Spirato et uscendo poi al giardino di Paulo Busurgi inclusine uscendo poi per dritto allo stretto del giardino di Giovanni Oliva includendo lo giardino di Francesco Foti inclusine sopra via limito di Triglia et tira ad alto dallo taglio delli vigni di Cundura et descendendo per dritto cala a basso dove Paulo Logoteta nella Chiesa di Santa Maria detta del Pileri dove s’incominciau».
Il territorio così definito veniva a comprendere circa sessanta «focularia» (nuclei familiari) e interessava la porzione dell’ambito vallivo delle due sponde della fiumara di Calopinace compresa tra il margine del pianoro di Condera, a Nord, e il margine del pianoro di San Sperato (a Sud), comprendendo la chiesa di S. Maria del Pilerio.
Nell’ottobre 1635, in occasione della sua ultima visita pastorale, l’arcivescovo D’Afflitto venne accolto dal sacerdote Giovanni Domenico Musco, primo parroco della nuova parrocchia e, dopo il rituale di ingresso, amministrò il sacramento della cresima procedendo poi alla ricognizione della chiesa.
Sull’altare maggiore, sul quale era collocata una «icona magna» dipinta in olio che raffigurava la opposto il quadro della «Gloriosissima Vergine». Sul lato sinistro vi era un «sacrarium» non ben composto che necessitava di un intervento di sistemazione e di pitturazione che raccomandò di eseguire entro tre mesi.
Poi ispezionò il fonte battesimale, collocato sulla destra dell’ingresso della chiesa, che era stabile e separato da un cancello ligneo ben chiuso. Su di esso vi era un ciborio ligneo nel quale si conservavano i sacri olii, il vaso del sale, i panni bianchi e il contenitore con il quale l’acqua benedetta veniva aspersa sul capo del battezzando.
Il presule raccomandò che accanto al fonte fosse realizzata una raffigurazione di San Giovanni Battista nel momento in cui battezzò Gesù Cristo nelle acque del fiume Giordano. Gli olii sacri erano conservati in tre ampolle di stagno, una per i battesimi, un’altra per le cresime e un’altra per gli infermi, ricoperte da un panno serico.
Era stata da poco realizzata una nuova sepoltura sotto il pavimento della chiesa e l’arcivescovo ordinò che, entro sei mesi, fosse aggiunta una sepoltura per i bambini. Passò poi ad esaminare i libri parrocchiali dei battesimi, delle cresime, dei matrimoni e dei morti. La parrocchia, in quell’anno, comprendeva sessantasei nuclei familiari con una popolazione di 308 «anime».
Nell’archivio diocesano ci resta di quegli anni il registro parrocchiale dei battesimi che riporta, nella prima pagina, il battesimo celebrato il 25 ottobre 1655 del piccolo Paolo Francesco Giuseppe Morisciano, figlio di Francesco e di Sartiano Antonia, il cui padrino fu l’abate canonico Francesco Bosurgi, fu Giovanni e fu Angelica Foti, della parrocchia di S. Sebastiano. Esso venne celebrato dal reverendo Mario Morisciano, in qualità di sostituto del parroco.
L’anno successivo i battesimi furono 12, numero confermato l’anno successivo se si comprendono quelli di due trovatelli, per poi scendere a 8 nel 1658, per riassestarsi a 12 nel 1659 e passare a 17 nel 1660, media che si è poi mantenuta nella prima metà del decennio successivo e che poi si è dimezzata in coincidenza degli anni della grave carestia tra il 1665 e il 1670.
Dal dicembre 1672, i battesimi furono celebrati dal nuovo parroco, sacerdote Carlo Oliva che, nel 1672, accolse l’arcivescovo Matteo De Gennaro nella sua visita pastorale. Di nuovo nella chiesa, rispetto alle precedenti descrizioni, c’era davanti l’altare, un lampadario con una lampada accesa continuamente.
Sulle pareti della chiesa vi era un quadro di Gesù e Maria. Il numero dei nuclei familiari appartenenti alla parrocchia era salito a 70. Dai dati della relazione della visita pastorale fatta dall’arcivescovo Damiano Polou, nel gennaio dell’anno 1749, quando era parroco il sacerdote Nicola Pellicanò, emergono nuovi dati sulla chiesa.
Il presule richiese che venisse indorato il tabernacolo posto sull’altare maggiore e che venisse collocato un crocifisso sull’altare sulla cui mensa doveva essere collocata una tovaglia nei colori prescritti dalle norme liturgiche.
Era stato realizzato un altare intitolato a Gesù e Maria, con il quadro precedentemente indicato, a cura dell’omonima confraternita, le cui regole sarebbero state approvate nell’anno 1764, nel quale celebrava il sacerdote Franco Morisano, con una elemosina di undici ducati lasciati dal reverendo Francesco Scuncia e di altri cinque ducati dalla famiglia Lipari per la celebrazione di messe in suffragio. Anche per questo altare necessitavano gli adeguamenti con l’uso di tovaglie colorate e delle tabelle previste dalle norme liturgiche.
Si dovevano rendere funzionali i confessionali e chiudere con delle lapidi le sepolture presenti nell’aula della chiesa. La dotazione di paramenti sacri doveva essere completata con due corporali e con borse violacee e si doveva inoltre provvedere all’acquisto di un Messale «de novo canone».
I Guarna e la «casa del nutricato»
Il nucleo di case vicine alla chiesa dello Spirito Santo e quelle sparse nella campagna che lo circondava erano, intorno alla metà del Settecento, abitate da nuclei familiari dediti prevalentemente alla coltura dei campi in cui predominavano nella parte valliva gli agrumeti e sulle parti collinari vigneti e alberi di gelso.
Di questi ultimi le foglie alimentavano la «casa di nutricato» che, come ripor- ta il catasto onciario del 1742 – 1749, apparteneva al nobile Francesco Guarna. Dai registri parrocchiali dell’epoca che ci sono pervenuti si possono individuare i nuclei familiari del piccolo villaggio che appartenevano alle famiglie Aricò, Baccillieri, Batassaro, Branca, Casciano, Catizzaro, Ferrara, Ielo, Messineo, Morisano, Pelicanò, Pellicone, Pirrello, Rigolino, Rosace, Russo, Serranò, Scuncia, Spanò, Tortorella, Velardo e altre.
Furono quelli anni difficili per la comunità, dapprima per la peste del 1743 e poi, nel decennio successivo per le epidemie che colpivano i bambini. Il bilancio delle perdite è riportato nel registro dei defunti nel quale, il parroco dell’epoca annotò i dati con cinque vittime su nove dipartite complessive nel 1759; ot- to su sedici nel 1762; cinque su sette nel 1772; cinque su otto nel 1776; dieci su sedi- ci nel 1778. Poi, ancora, il cinque febbraio 1783 il «gran tremuoto» danneggiò molte strutture edilizie, compresa la chiesa, la cui ricostruzione venne inserita nel piano redatto dall’ingegnere Mori per il Ripartimento di Reggio, nell’an- no 1787, per una spesa di 150,80 ducati come riporta un documento conservato presso l’Archivio di Stato di Catanzaro.
Il Piano per le nuove parrocchie, redatto dal marchese di Fuscaldo, fissa- va un quadro delle rendite che la chiesa aveva per un valore di dieci ducati e che pro- venivano da terreni siti in contrada Trapezzi Grandi nel territorio di Motta San Giovanni, nella stessa contrada Spirito Santo (un terreno adiacente alla chiesa coltiva- to con «gelsi neri e ficarelle»), e nella contrada Tre Molini.
Altre rendite erano legate ai censi di terreni siti nelle contrade Prumo, Cundera, Asprea, Matassario e Gallico nel territorio di Sambatello. La rendita fissata per il Parroco dello Spirito Santo, secondo il Piano, doveva ammontare a 100 ducati annui, essendo il numero dei parrocchiani inferiore a mille unità (471 nel 1786 e 465, nel 1789), ma non si poteva assegnare essendoci in quegli anni un «parroco amovibile» nella persona di don Antonio Canale, che svolgeva le mansioni di economo curato dal 23 dicembre 1752, auspicandosi tempi brevi per avviare la procedura concorsuale per la nomina del nuovo parroco.
Alcuni anni dopo, a seguito della soppressione della parrocchia di Santa Maria della Consolazione, il suo parroco, don Francesco Auteri venne trasferito nella sede parrocchiale dello Spirito Santo. Da alcuni documenti conservati nell’archivio diocesano si rileva che lo stesso non accettò di buon grado la nuova destinazione essendo stato privato del ruolo di confessore diocesano, creando poi diverse difficoltà nell’esercizio dell’attività di parroco.
Alla morte di don Antonio Canale, avvenuta nel 1818, gli successe don Gaetano Granata, la cui rendita netta, a seguito del Piano del Fuscaldo era di ducati cinquanta e dieci grana derivanti dai censi di alcuni terreni siti in Valanidi, in Botteghelle, in Arangea, in Pellaro, in Tremulini, in Santa Caterina, in Eremo Botte, e da due case site nella parrocchia di Loreto, da un palazzo sito nella Strada Sant’Agostino, da una casa sita nella contrada Crisafi, da una casa sita nella parrocchia del Soccorso, da una «casa alla marina vicino al Conservatorio Verginelle».
Completata la ricostruzione della chiesa, il parroco don Gaetano Granata, nel dicembre 1821, venne autorizzato dall’arcivescovo Alessandro Tommasini, a costruire un altare dedicato al «glorioso Patriarca S. Giuseppe», sul lato sinistro dell’aula. Esso doveva aggiungersi ai tre altari già presenti all’interno della Chiesa e cioè quello maggiore, quello di Gesù e Maria e quello di San Paolino da Nola.
Negli anni successivi si provvide alla ricostruzione «dell’intiero pavimento della chiesa», alla realizzazione del soffitto con «tavolato di abete di Venezia con tela inchiodata per soffitto di covertura» ed alla costruzione della sagrestia. Dallo «Stato dei Sacerdoti appartenenti alla parrocchia», redatto nel 1826 si rileva che in essa risiedevano, oltre al parroco, l’abate don Felice Barilla, canonico metropolitano, e don Giuseppe Gangemi che svolgeva il suo servizio presso la Cattedrale.
A metà Ottocento, il numero dei parrocchiani era salito a 577, con 134 nuclei familiari, e l’ambito della parrocchia che comprendeva la «chiesa filiale» di Santa Maria di Nives, «vulgo del Piliere di diritto patronato della famiglia Bosurgi», si estendeva «a salire dal Vallone Milio sulla strada Spirito Santo vecchia e nuova sino alla Villa Filocamo ossia Vallone Carrubare da Oriente, ad Occidente e da Sud a Nord dalla sponda sinistra del torrente Calopinace sempre scendendo dal Vallone Milio, e rasentando le colline a sinistra salendo dalla strada traversa Spirito Santo - Vinco».
Nel 1855 resse la parrocchia l’economo curato don Vincenzo Vilardi sino alla nomina del nuovo parroco don Giovanni Salazaro. Una descrizione della chiesa, come si presentava nell’anno 1873, venne fatta dal parroco don Antonio Cara nella relazione redatta per la prima Visita pastorale dell’arcivescovo Francesco Converti.
Essa era sita «nel fondo dei signori Granata» ed era lunga palmi 50, larga 24 ed alta 27 (m. 13,60 x 6,50 x 7,30) ed aveva una facciata semplice senza alcun ornamento sovrastata dal «pinnacolo» del campanile a vela che ospitava una campana grande di rotoli 117 (kg. 92), benedetta nel 1837, ed una piccola di 40 (kg 32).
Sulle pareti laterali si aprivano sei finestre. Era pavimentata con mattoni e l’altare maggiore con la custodia eucaristica era realizzato in pietra di Siracusa. L’altare di Gesù e Maria apparteneva all’omonima Congrega mentre quello di San Paolino da Nola apparteneva «agli Ortolani». La chiesa era dotata di un organo, di un pulpito ligneo e di due confessionali.
La sacrestia era sulla destra della piccola area presbiterale. In occasione della visita pastorale l’arcivescovo Francesco Converti rilevò il cattivo stato delle finestre del Sacrario che rendevano la chiesa insicura. In quella nei giorni di domenica e nelle festività impegno che nel 1894 risultava però disatteso. Il 16 novembre di quell’anno, il terremoto che colpì l’Aspromonte Settentrionale, provocò danni alla chiesa. Il parroco don Domenico Spinelli avanzò richiesta per poter riparare l’edificio religioso che mostrava lesioni profonde negli apparati murari. Venne accordato un contributo e i lavori vennero eseguiti tra il 1895 e il 1896.
Nel 1902 il parroco ed il priore della Congrega di Gesù e Maria ottennero l’autorizzazione dell’arcivescovo Portanova a demolire il dismesso altare di San Paolino con l’impegno di riedificare e decorare in tempi brevi l’altare di Gesù e Maria, collocando «in un luogo visibile a scelta del Parroco» il quadro del Santo per continuarne la devozione. Il disastro tellurico del 28 dicembre 1908 distrusse completamente la Chiesa.
Accanto alle rovine venne montata una chiesa baracca con la casa canonica «per munificenza e col denaro del Santo Padre Pio X». Soltanto nel 1925, dopo la ratifica della «Convenzione», l’Opera Interdiocesana dava avvio alla ricostruzione delle chiese. A redigere il progetto della nuova chiesa fu il responsabile dell’Ufficio, il padre Carmelo Angiolini, in data 14 febbraio 1926, prevedendo una spesa di lire 570.000,00.
Esso si articolava nella chiesa ad una navata (8 x 17 metri) con la cappella della congrega sul lato destro e con un’abside semicircolare, nella sacrestia e nel campanile occupando una superficie «di poco superiore a quella precedente» nello stesso sito. Nel marzo 1926 l’Ufficio del Genio Civile ridimensionava alcune parti del progetto riducendo il costo a lire 480.000,00. Lo stile della chiesa, cofirmato dall’ingegnere Alberto Reina, era improntato alle linee architettoniche nel neogotico. Esaminato dalla Prima Sezione del Ministero dei Lavori Pubblici, il 27 maggio 1926, il progetto venne ritenuto approvabile a condizione che fossero state apportate delle modifiche sia nei calcoli che nella decorazione architettonica esterna.
Il progetto venne quindi modificato sia nell’impianto planimetrico, «con due cappelle laterali absidate in luogo dell’unica cappella», che nelle linee architettoniche ispirate al neoromanico oltre al ridimensionamento dell’altezza del campanile. Approvato il 27 giugno 1927 il progetto venne ancora modificato, con l’esclusione delle due cappelle laterali, nel marzo dell’anno successivo riducendosi l’importo dei lavori a lire 380.000,00.
Essi furono affidati all’impresa dell’ingegnere Oreste Aspra che li iniziò il 30 maggio 1928, sotto la direzione dell’ingegnere Mario Mazzucato, e li completò, realizzando poi la casa canonica, nel marzo 1929. (6. Continua) occasione interdisse alle celebrazioni l’altare di San Paolino la cui mensa era sconnessa rilevando che nella porta di ingresso doveva essere posta una tenda per proteggere la celebrazione delle funzioni sacre dal vento impetuoso e dalle intemperie. Riguardo la chiesa di Santa Maria del Piliere, sita nell’ambito parrocchiale, si indicava che era «di dritto patronato del cav. D. Tobia Barilla Spanò» il quale lasciò un legato per fare celebrare la messa.
L’arcivescovo di Reggio Calabria – Bova ha presieduto questa mattina in Cattedrale la liturgia pontificale nella solennità della Madonna della Consolazione durante la quale si è svolta l’offerta del Cero Votivo da parte dell’Amministrazione comunale.
L’appuntamento di giorno 19 sarà occasione non solo per ripartire, ma anche per rendere grazie al Signore del prezioso dono delle vocazioni nel territorio della diocesi di fondazione paolina
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