Avvenire di Calabria

Grazie alla testimonianza di chi negli anni ha costruito veri ponti d'amore, vi proponiamo un racconto diverso della narrazione in Terra Santa

Striscia di Gaza, terra di incontro, dialogo, amore e pace

Tra Israele e Palestina, ci sono realtà non a caso definite "oasi d'amore" in cui si pratica non solo il dialogo tra ebrei, palestinesi e cristiani, ma qualcosa di ancora più grande…

di Autori vari

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Teatro di guerra, ma anche di amore. Grazie al "ponte" di solidarietà costruito negli anni con il contributo di tanti volontari italiani e reggini, vi riproponiamo un racconto diverso dalla narrazione che, in queste settimane di sangue e dolore, viene fatto della Terra Santa, proposto sull'ultimo numero in edicola di "Avvenire di Calabria".

Tra Israele e Palestina, ci sono realtà non a caso definite "oasi d'amore" in cui si pratica non solo il dialogo tra ebrei, palestinesi e cristiani, ma qualcosa di ancora più grande… Le testimonianze parlano da sole.

Caritas Baby Hospital di Betlemme, la cura all'odio, inizia in corsia

di Laura Zecchin - ufficio Aiuto Bambini Betlemme

A Betlemme, ad appena qualche metro dal Muro di Separazione si trova il “Caritas Baby Hospital”, l’unico ospedale pediatrico della Cisgiordania. Lo stesso Papa emerito Benedetto XVI, in una visita l’ha definito «un’Oasi di Salute, Pace e Amore» perché lì, da 70 anni, il “Caritas Baby Hospital” ci dimostra che “Pace” non è una parola scritta nei libri, ma un fatto concreto, che origina da delle scelte e si traduce in azioni pratiche.


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È cresciuto assieme alla comunità locale, facendo germogliare semi di carità e fraternità in una terra dilaniata dal conflitto, ha perfino costruito ponti tra la sanità israeliana e quella palestinese mettendo davanti a tutto l’amore per i bambini e il loro diritto ad essere curati.

Ogni anno questo ospedale, che è un’opera di carità e si sostiene solo grazie alla solidarietà di tante persone in Italia, Svizzera, Germania e Austria attraverso l’Associazione “Aiuto Bambini Betlemme”, cura circa 50.000 bambini senza badare alla loro provenienza, religione o situazione economica.

Dal 7 ottobre però la situazione è innegabilmente difficile. Il conflitto tra Hamas e Israele ha prodotto e produce ripercussioni anche a Betlemme. La Cisgiordania è stata sigillata. Non è più possibile per la popolazione palestinese entrate nello Stato ebraico dal territorio occupato, e bloccati sono anche tanti collegamenti fra le stesse città e villaggi palestinesi.

Le città e le strade sono vuote, spostarsi anche per un breve tragitto fa paura. Betlemme al momento è circondata da posti di blocco, almeno quattro, che impediscono non solo i normali spostamenti, ma paralizzano anche l’accesso alle cure e all’Ospedale pediatrico.

Un'oasi di "pace e amore" a servizio dei bambini di varie nazionalità e religioni

Il Caritas Baby Hospital che fin dalla sua fondazione si è dovuto confrontare con tensioni e situazioni di guerra sa come adattarsi e riorganizzarsi nelle emergenze anche se, come affermato dalla primaria, la dottoressa Morzouqa: «l’incognita del futuro è la preoccupazione maggiore. Capire quanto possa durare tutta questa violenza, che causa immani perdite sia da una parte che dall’altra, e da lì stimare per quanto tempo ancora avremo a disposizione medicamenti a sufficienza. Qualsiasi cosa accada dobbiamo essere pronti».

Al momento il personale medico e le assistenti sociali stanno contattato le famiglie dei piccoli pazienti cronici per garantire loro la consegna dei farmaci di cui hanno bisogno. Visto le restrizioni alla mobilità, che colpiscono tutti, perfino il personale che abita fuori Betlemme non può raggiungere l’Ospedale e recarsi a lavoro, organizzarla non è semplice.

Il Caritas Baby Hospital negli anni ha saputo costruire e dispone di ottimi contatti e collegamenti e se questo non fosse sufficiente, in caso di necessità, i farmaci vengono portati al posto di blocco e consegnati ai genitori. Sempre nell’ottica di essere il più raggiungibili possibile, è stato attivato un numero verde, a disposizione 24 ore su 24 dei genitori per interpellare i medici sulla salute dei propri figli. Si sta provvedendo a potenziare le riserve di medicinali, presidi medici e gasolio per l’inverno.

Medici musulmani, ebrei e cristiani collaborano da sempre per il bene dei piccoli pazienti

Ancora una volta le vittime innocenti della guerra sono i bambini. Di fronte a una situazione così drammatica, alle indicibili sofferenze e a tanta violenza il senso di impotenza e di ingiustizia sono talmente forti che diventa arduo continuare a percorrere la via della pace. Ma come ci insegna il “Caritas Baby Hospital” è una scelta, una scelta a volte difficile da digerire ma l’unica possibile.

Una scelta che ha permesso a medici musulmani, ebrei e cristiani di collaborare assieme per il bene dei bambini, che ha fatto si che giovani studenti di medicina palestinesi dopo essersi formati e specializzati all’estero, abbiano deciso di rientrare nel loro paese nonostante le enormi difficoltà, che ha creato legami di amicizia tra persone di paesi diversi che nonostante le distanze fisiche si riconoscono come fratelli e sorelle.

Quella promessa fatta 70 anni fa - «Noi ci siamo!» - ci chiama a continuare ad impegnarci per la Pace, a continuare a sostenere l’opera di salute e cura del “Caritas Baby Hospital” e di continuare ad amare.

La “tenda” del dialogo ponte tra popoli diversi

di Francesca Chirico

Il tema della pace e della sua ricerca richiama a quello del conflitto e della sua risoluzione. La complessità di un mondo in cui le differenze si acuiscono e il divario sociale aumenta, ha indotto la comunità internazionale a dotarsi di strumenti alternativi di contrasto all’uso della forza per risolvere i conflitti fra Stati e favorire la riconciliazione fra le parti in lotta, nel rispetto dei diritti delle vittime.

Ogni guerra è sporca. Il ricorso all’uso della forza lascia profonde lacerazioni che non è facile cicatrizzare anche quando le armi tacciono e anche in presenza di una soluzione negoziale. Nel conflitto irrisolto fra israeliani e palestinesi, il rapporto fra giustizia di transizione, diritti umani e pace e il bilanciamento tra responsabilità individuali dei crimini commessi e esigenza di riconciliazione dei due popoli è centrale e va ricercato con strumenti che trasformano il conflitto in un’occasione generativa.

Tante storie, un un unico desiderio: Pace

In uno dei suoi lavori Jaqueline Morineau, madre della mediazione umanistica, racconta la storia di Sobhya, una donna palestinese che innaffia fiori nel suo giardino. Ogni fiore è stato piantato dentro una delle bombe sganciate su Gaza. Due di queste bombe hanno ucciso suo figlio nel 2009 e sua figlia nel 2011, altre hanno ucciso i suoi vicini. Ne ha raccolte tante quante le tombe scavate in quella terra che nel suo dna ha i geni del Principe della Pace.

Quello seminato da Sobhya non è un campo di battaglia, ma uno spazio in cui coltiva la speranza: ogni fiore, piantato dentro la sua culla di morte, farà riesplodere la vita. Questa donna ha scelto di coltivare l’amore davanti alla violenza e all’odio, di coltivare la speranza contro ogni disperazione.

E di terra e germogli è fatta anche la storia di Daoud Nassar, palestinese cattolico, proprietario di una fattoria di circa 42 ettari a sud-ovest di Betlemme che appartiene alla sua famiglia da generazioni. Siamo nella zona C della Palestina, nei territori occupati e controllati militarmente dagli israeliani. Nel 1991 la terra di Daoud viene dichiarata “state land” (terra appartenente allo stato d’Israele). Inizia una battaglia legale che dura da 25 anni ed è costata, sino ad oggi, alla sua famiglia quasi 200 mila euro.

La "Tenda della Nazioni", luogo di incontro e dialogo fra israeliani, palestinesi e giovani di tutto il mondo

Nel corso di questi anni le autorità israeliane hanno tentato in ogni modo (anche violento) di far desistere Daoud e suo fratello. Ma loro non intendono mollare. La “Tenda delle Nazioni”, questo il nome della fattoria, sorge sull’unica delle sei colline non occupate da Israele ed è diventata un luogo d incontro e dialogo fra israeliani, palestinesi, giovani provenienti da tutto il mondo.

Al motto di «Come and see; go and tell», non vogliamo essere nemici, oppongono una resistenza non violenta orientata su questi principi: « Ci rifiutiamo di essere delle vittime… ». Senza acqua corrente, senza elettricità e con continui boicottaggi, armati di spirito positivo, hanno messo in piedi una fattoria che è un centro di educazione ambientale e di educazione alla pace. « Ci rifiutiamo di odiare e nessuno ci può obbligare a farlo… ». La famiglia di Daoud è cattolica e ci dicono che il Vangelo è a fondamento della loro resistenza non violenta.

Perché la guerra?

«Crediamo fortemente nella giustizia… ». Non si voltano indietro, come il contadino che semina con il braccio proteso in avanti, organizzano campi per gli adolescenti, studiano modi nuovi di coltivare nelle difficoltà, accolgono tutti i visitatori da dovunque provengano, qualunque sia il loro credo, perché la Tenda vuole essere un ponte fra tutti i popoli. Davanti agli insuccessi della propria azione politica chi detiene il potere alimenta il dissenso.

Quando la polarizzazione del dibattito pubblico si esaspera, si innescano le ragioni che legittimano persino un intervento militare. Il fallimento di una visione politica che degenera in un conflitto obbliga a un lavoro di “verità” che parta dal riconoscimento degli errori di valutazione per giungere ad un cambio di prospettiva. «La pace può nascere dalla sofferenza, dalla divisione, dalla guerra, se noi abbiamo il coraggio di incontrarle” diceva la Morineau, citando l’esempio della Comunità europea nata dalle macerie dei due conflitti mondiali.

Indagare le ragioni del conflitto israelo-palestinese imporrebbe una riflessione e un approfondimento che poche righe non possono contenere, né è l’intento di questa “finestra” che abbiamo aperto. Il desiderio è quello di raccontare che in una terra lacerata e ferita ci sono uomini e donne che piantano speranza nei crateri scavati dalla violenza. Nevè Shalom e Giulia, Daoud, Padre Sandro e la comunità dell’Annunziata di Ain Arik, il Caritas Baby Hospital sono icona di tutta l’umanità ferita, mutilata ma non annientata dall’odio, protagonisti di storie di amicizia e perdono, convivenza e riconciliazione che dovevano essere raccontate.

Neve Shalom, il villaggio di ebrei e palestinesi dove si impara la pace

Neve Shalom Wahat al-Salam (Nswas) è un villaggio cooperativo fondato nel 1972 da Padre Bruno Hussar nei pressi del monastero di Latrun che, in questa terra equidistante da Gerusalemme e da Tel Aviv ha sognato uno spazio in cui ebrei e palestinesi potessero vivere insieme. Quando dopo la guerra dei Sei Giorni, Gerusalemme venne unificata e facendo irrompere il mondo arabo già presente in Israele sotto forma di una minoranza del 12% della popolazione, circa 300.000 abitanti, nella vita quotidiana della città, Bruno Hussar non comprendeva ancora l’importanza della sua intuizione.

Oggi, che l’idea di Nswas è una realtà tangibile: quel piccolo villaggio ospita più di 100 famiglie di ebrei e palestinesi (cristiani e musulmani) di cittadinanza israeliana.

Una Scuola della Pace

All’interno del villaggio le famiglie vivono ognuna fedele alla propria fede e alle proprie tradizioni, nel rispetto di quelle altrui, i bambini studiano in una scuola bilingue e, soprattutto, all’interno del Villaggio è ospitata la Scuola della Pace, un luogo in cui da tutto il mondo esperti, giovani, futuri leader si incontrano per studiare la pace. Perché secondo Bruno Hussar “esistono accademie dove, per anni, viene insegnata l’arte della guerra” qui, “Ispirati dalla parola profetica “un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non impareranno più l’arte della guerra”, perché anche la pace è un’arte: che non si improvvisa, ma deve essere insegnata” da ogni angolo del mondo si arriva per “incontrare “l’altro”, per abbattere i muri della paura, della diffidenza, dell’ignoranza, dell’incomprensione, dei pregiudizi - tutte cose che ci separano - e costruire ponti di fiducia, di rispetto, di reciproca comprensione e, se possibile, di amicizia”.

In questi giorni in cui il conflitto è nuovamente esploso con una brutalità senza precedenti, al Villaggio di continua a creare spazi di dialogo e riconciliazione.

Abbiamo chiesto a Giulia Ceccutti membro del consiglio dell’Associazione italiana Amici di Neve Shalom Wahat al Salam di aiutarci a comprendere meglio cosa significhi per una persona impegnata nella diffusione di una cultura di pace e convivenza assistere alla polarizzazione del dibattito e la semplificazione in categorie (Hamas uguale popolo palestinese e israeliani uguale sionisti)? Questa la sua risposta: «Ciò che è accaduto il 7 ottobre scorso, e da lì in poi, è stato un colpo durissimo, un autentico tsunami, per quanti, in Israele e in Palestina, si occupano di dialogo e pace da anni. E quindi, di riflesso, anche per chi prova a farlo da qui».

«Misurarsi con la polarizzazione del dibattito e con la semplificazione, in questo momento al massimo grado, è la sfida maggiore. La sfida maggiore - ancora Giulia - è rifiutarsi di accettare la disumanizzazione del “nemico”, da una parte e dall’altra».

«La semplificazione cui assistiamo oggi non è nuova. È anche figlia, credo, di anni e anni di totale assenza, nei parte dei nostri media, di un approccio minimamente complesso, critico, onesto, attento a restituire la complessità del conflitto israelo-palestinese. Negli ultimi anni – aggiunge – sui nostri mezzi d’informazione si è inoltre parlato pochissimo di quanto stava accadendo in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza, a Gerusalemme Est (la parte araba di Gerusalemme)».

L'altra faccia - quella bella - di cui i media non parlano

La sensazione è che all’opinione pubblica «manchi spesso anche una conoscenza di base del contesto, banalmente della suddivisione del territorio, dei rapporti… oltre ovviamente alle principali tappe storiche. Provare ora a scalfire la narrazione generale, facendo passare storie diverse, storie di ascolto e riconoscimento del dolore di entrambi i popoli, esperienze concrete di dialogo e convivenza, è doveroso».

«Mi riferisco non solo al Villaggio di Neve Shalom Wahat al Salam (comunità di famiglie ebree e arabe che, all’interno di Israele, vivono insieme per scelta da oltre 50 anni), ma anche alle numerose organizzazioni e realtà della società civile che, pur con grande fatica vissuta in prima persona, in questi giorni stanno continuando il loro difficile lavoro dal basso.

Penso alle famiglie ebree e arabe in lutto di Parents Circle. Penso - ancora la testimonianza di Ceccutti ai volontari ebrei di The Road to Recovery, che stanno continuando a dare passaggi in macchina a pazienti palestinesi, perlopiù bambini, verso ospedali israeliani. La lista potrebbe continuare a lungo. Certo rappresentano una minoranza, ma ci sono. Quello che osservo conclude - è che comunque le persone in Italia, soprattutto di fronte al disastro cui siamo di fronte, hanno un grande bisogno di segni di speranza come questi. È un bisogno da colmare e da coltivare. È ciò che ci fa rimanere umani».

L'impegno: la sfida dei cristiani: contribuire a superare barriere e preconcetti

di Padre Sandro - Piccola famiglia dell’Annunziata di Ain Arik

Il mio contributo è una testimonianza a livello interiore di quello che stiamo vivendo in queste settimane. È necessaria una parola che potrebbe sembrare contraddirmi subito: è molto chiaro che le due violenze contrapposte vanno condannate, ma ci sono tre considerazioni da fare. Sul piano del diritto e di ogni legalità quanto commesso da Hamas non è giustificabile: nemmeno l’occupazione giustifica l’uccisione e il massacro di civili.

Muovere una critica ad Israele sull’occupazione non significa fornire un supporto indiretto ad Hamas. Bisogna rifiutare l’equazione Hamas “uguale” Palestinesi. Tutto ciò che è motivo di una lotta spirituale interiore non è indifferente per chi, come noi, ha scelto di stare qui.

La nostra comunità si trova ad Ain Arik, un piccolo villaggio, che con l’arrivo dei profughi palestinesi nel 1948 ha cambiato volto e si è trasformato da un villaggio in maggioranza cristiano, a un villaggio a maggioranza musulmano, con una presenza di qualche centinaio di cristiani latini e ortodossi. Fin da quando siamo arrivati, nel 1989, durante la prima intifada delle pietre, abbiamo sempre goduto di una certa pace e collaborazione.

Il compito dei cristiani, unire i popoli attraverso la preghiera

Siamo a soli 7 km da Ramallah, perciò relativamente lontani da Gaza, teatro della guerra di questi giorni. A portarci qui è stata una richiesta dell’allora patriarca Michel Sabbah, il quale ci chiese una presenza nei territori occupati sul tipo di quella che già avevamo in Giordania, a Main, cioè una piccola comunità di fratelli e sorelle dediti alla preghiera, nella lingua locale, l’arabo che poteva permettere la partecipazione della gente, o detto meglio, la possibilità di pregare insieme a loro. Don Giuseppe Dossetti, il nostro fondatore, desiderò una presenza a due polmoni: una comunità qui ad Ain Arik e una più piccola a Gerusalemme. 


PER APPROFONDIRE: Conflitto in Israele, la lettura di don Valerio Chiovaro


Nel 2014, in coincidenza dell’invasione a Gaza, abbiamo deciso di studiare l’ebraico moderno. I morti e le violenze ci fecero tentennare e l’allora Patriarca Michel Sabbah ci scrisse: «Non c’è da esitare o fermare la vostra iniziativa. È bene avere solidarietà coi due popoli. Bisogna che gli israeliani sentano e conoscano che ci sono amici come voi, che li incoraggiano ad amare e ad aver meno paura degli altri. La vostra amicizia, per quanto è possibile, invita tutti e due alla riconciliazione; né pro-palestinesi, né pro-israeliani, ma pro-riconciliazione».

Ho ricordato questo episodio perché una delle sfide del nostro rimanere qui è proprio quella di starci a nome dei due popoli, portarli nella preghiera, ed essere, nel nostro piccolo, una testimonianza a favore della riconciliazione.

L'accoglienza fraterna sotto il fuoco incrociato

Mantenere questo ideale, o meglio questa speranza, anche nella terribile situazione di oggi, è la sfida più grande alla quale siamo sottoposti quotidianamente, ogni volta che, giorno e notte, sentiamo il suono insopportabile degli aerei militari che passano sopra le nostre teste e che vanno a bombardare Gaza e poi fanno ritorno alle loro basi in Galilea; ogni volta occorre opporre un pensiero e una preghiera di pace, di speranza, di fede. Dall’inizio dei fatti di Gaza si sono moltiplicati gli scontri fra palestinesi ed esercito israeliano e coloni; si contano un centinaio di palestinesi uccisi.

Noi ci sforziamo di comprendere le ragioni di un popolo che vive nella privazione quotidiana di diritti e sicurezze, pur non sperimentandolo fino in fondo per le garanzie che ci offre il nostro passaporto italiano. Questo non ci impedisce di sperimentare una accoglienza fraterna e una comunione che nasce dal vivere insieme. Quello che possiamo fare in più è gettare ponti fra le due parti in conflitto e infrangere quel muro innalzato da una propaganda falsa che ha fatto sì che ormai il palestinese è individuato come il terrorista.

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