L'8 dicembre ricorreva il 55esimo anniversario dalla chiusura dei lavori conciliari a Roma
Vaticano II, Nunnari: «Il mondo cambiava e noi non lo capivamo»
Federico Minniti
9 Dicembre 2020
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Monsignor Salvatore Nunnari, arcivescovo emerito di Cosenza-Bisignano, è sempre molto generoso quando si tratta di raccontare alcuni passi importanti della sua vita. Non è stato da meno quando l’abbiamo chiamato per il suo ricordo personale del Concilio Vaticano II in occasione del 55esimo anniversario dalla chiusura dei lavori conciliari.
Qual è il suo ricordo del Concilio Vaticano II? Posso dire di aver vissuto quegli anni “a cavallo” tra il vecchio e il nuovo. Durante gli anni del Concilio, infatti, ero un giovane seminarista che - probabilmente neanche si era conto della portata storica di quello che stava vivendo. Le parole di Giovanni XXIII colsero di sorpresa un po’ tutti e quello che avevamo sempre sognato si stava realizzando. Un esempio pratico fu la messa in italiano, ma ciò che fu davvero straordinario è lo spirito del Concilio Vaticano II. Se devo sintetizzare quegli anni, posso dire che stavamo assistendo al cambiamento del mondo ecclesiale senza capirlo. Il Papa ha letto i segni dei tempi e ha resistito nonostante i momenti difficili e le posizioni contrastanti.
Come fu recepito il Concilio nella sua diocesi di origine, quella di Reggio Calabria? C’è una vulgata che descrive monsignor Giovanni Ferro come un vescovo conservatore. Il pastore di Reggio Calabria dell’epoca, è vero non apparteneva all’alveo dei progressisti. Ma io dico: fu prudente e santo. La sua partecipazione ai lavori conciliari fu assidua, sempre riportata ai suoi fedeli attraverso le lettere che puntualmente inviava da Roma. Fu una guida illuminata che seppe applicare in modo diretto, senza fronzoli, il cuore del Concilio. Tra i primissimi provvedimenti ci fu l’istituzione dei consigli diocesani, presbiterale e pastorale, che cambiarono il volto della Chiesa reggina. Una famiglia dove crebbe in modo davvero considerevole il protagonismo del laicato. Parliamo degli anni ‘60 e queste novità furono radicali, ma subito applicate senza remore dal vescovo Ferro.
A suo avviso, oggi, il Vaticano II è pienamente applicato dalla Chiesa italiana? Occorre fare una premessa. Ho parlato poco fa dell’impatto che papa Giovanni XXIII ha avuto nella storia della Chiesa. È importante, però, parlare anche di un altro pontefice. Mi riferisco a papa Paolo VI che difese con coraggio l’intuizione del Concilio. Non era facile, le posizione di contrasto c’erano ed erano nette. Ma Paolo VI fu uomo di grande equilibrio e seppe parlare alla Chiesa «col Concilio in mano». La Lumen Gentium e la Gaudium et Spes divennero, grazie a lui, i fari che illuminarono i passi di santi vescovi.
Cosa cambiò per i sacerdoti? Tutto. Si capì, ad esempio, che i laici non dovevano essere più di semplici collaboratori del presbiterio, ma veri e propri corresponsabili nella costruzione della Chiesa sul territorio. La diocesi era una famiglia che doveva accogliere, senza stancarsi mai di farlo. I documenti del Concilio, poi, diedero manforte al ritorno della Chiesa al centro del dibattito pubblico. Come dice la lettera a Diogneto, « nel mondo, ma non del mondo». Ecco l’illuminante consolazione che il Concilio Vaticano II diede a noi giovani preti: un invito a essere tra la gente, senza mai disperdere la materna protezione di una Chiesa, santa, madre e peccatrice. Proprio come ognuno di noi.
Pensa che la Chiesa di oggi abbia bisogno di un nuovo momento di «ripartenza» nel dopovirus? Niente sarà più come prima; allora non potrà esserlo neanche la Chiesa. Questo maledetto virus ha limitato le nostre presunzioni, riportandoci all’essenziale. Questo deve essere capace, come già sta facendo, a interpretare questo tempo. Un cammino faticoso, sì, ma troppo importante per non essere percorso. Dobbiamo avere il coraggio di vedere il mondo che cambia attraverso la sofferenza di questi mesi. Il Papa si sta già facendo guidare dalla sapienza della Croce. È quella la strada che come cristiani dobbiamo seguire: la Chiesa deve stare sempre vicino all’uomo che soffre.
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