Avvenire di Calabria

L'episcopato di monsignor Giovanni Ferro ha segnato in modo indelebile il cammino ecclesiale della Chiesa reggina

Virtù e iniziative pastorali, l’impegno di monsignor Ferro per Reggio Calabria

Vi proponiamo un ricordo a più voci: da Latella a Morrone, da Iachino a Agostino, tutti raccontano il vescovo santo

di Redazione Web

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L'episcopato di monsignor Giovanni Ferro ha segnato in modo indelebile il cammino ecclesiale della Chiesa reggina. Vi proponiamo un ricordo a più voci: Latella, Morrone, Iachino e Agostino raccontano il vescovo santo.

Monsignor Giovanni Ferro, le virtù del vescovo santo

Il vescovo Giovanni Ferro, per 27 anni, ha percorso le strade di Reggio Calabria, «angelo di consolazione, in mezzo ai suoi figli tragicamente provati da luttuosi eventi, è entrato negli ambienti della solitudine e dell’abbandono morale e sociale, tra i sofferenti degli ospedali, del lebbrosario, tra i carcerati: ovunque profeta di Dio che parlò, soffrì e comprese il cuore del suo popolo che ha catechizzato con passione pastorale» come scrive il vicepostulatore monsignor Umberto Giovanni Latella per Avvenire di Calabria.


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«Il vescovo Giovanni Ferro, - prosegue Latella - sapientemente festoso e accogliente, specie con i fanciulli e gli ultimi, rendeva grandi gli umili con la sua grande umiltà. In ginocchio assumeva la dimensione di uomo e credente; appariva come un fanciullo estatico, essendo rimasta scolpita nel suo volto, sino alla fine, la nota caratterizzante dell’infanzia spirituale che rende immediato e filiale il rapporto con Dio e meno complicato quello con i propri simili, perché solo dentro gli spazi della purezza di cuore si può vedere Dio (Mt5,8), ascoltarne le parole, parlargli, parlare di Lui».

Di monsignor Ferro ha parlato anche l'attuale arcivescovo metropolita di Reggio Calabria - Bova, monsignor Fortunato Morrone che ne ha raccolto l'eredità. L'arcivescovo, parlando di monsignor Ferro lo ha definito «segno della presenza del Signore». «La sua vita può essere descritta con una sola parola: “semplicità”. Un termine che mi ritorna in mente, perché Dio è semplice». In questo sta la santità dell’indimenticato pastore della Chiesa reggina, ha sottolineato Morrone, secondo il quale «non è necessario aspettare il miracolo per dichiarare santo monsignor Ferro. Già la sua vita lo ha reso tale e la sua semplicità ci indica la strada per seguire il Signore».


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Monsignor Giuseppe Fiorini Morosini, arcivescovo emerito di Reggio Calabria – Bova, ha scritto una Lettera pastorale in occasione del Decreto pontificio di riconoscimento delle virtù eroiche del Venerabile Servo di Dio, monsignor Giovanni Ferro, arcivescovo di Reggio Calabria e vescovo di Bova.

In particolare, monsignor Morosini – in due intensi capitoli della sua Lettera pastorale – si concentra sulla la lotta alla mafia come fatto «rilevante nell’azione pastorale di monsignor Ferro». Il presule somasco definiva la ‘ndrangheta «come il frutto della decadenza dell’azione sociale e politica per cui trovano libero il passo quegli individui oscuri, che si uniscono a congiurare ai danni della società» (1958). 

Quando si recava per l’amministrazione delle Cresime nelle parrocchie dei territori della diocesi in odore di mafia – come leggiamo negli atti del processo canonico –, «non temeva di pronunciare parole di esplicita condanna», scrive Morosini. Nella Lettera pastorale del febbraio 1957, dal titolo Alle radici del male, si legge: «Che dire dell’onore che talvolta ancora si dà a uomini violenti, volgari e mafiosi, la cui pericolosa e oscura attività noi abbiamo sempre severamente condannata e che vogliamo vedere definitivamente sparire con l’energica azione degli onesti e con l’isolamento di ogni superbo disonesto. E i delitti d’onore, con quali parole potremmo stigmatizzare? È mai possibile che un delitto possa riparare un’ingiustizia?».

Dieci anni dopo, in seguito a una lunga e dura esperienza sul campo, il vescovo piemontese d’origine, ma calabrese scrive: «La sicurezza che ostentano nelle loro criminose imprese ordite nelle tenebre e compiute spavaldamente anche alla luce del sole, poggiano sugli incerti e deboli interventi di autorità responsabili». Ma con umiltà, Ferro sa riconoscere anche le responsabilità della Chiesa in genere e quelle proprie.

Monsignor Ferro non si fermò solo ad una sterile denuncia, ma affrontò la questione cercando anche di indicare alcune cause del fenomeno e di offrire dei rimedi. Nella lettera di tutto l’Episcopato calabro del 1975 vennero indicate le situazioni dove il cancro della ’ndrangheta aveva le sue radici: «Causa del nuovo impulso alla mafia è proprio la crisi morale e ideologica di una società consumistica materiata di edonismo, in continua, affannosa, e non di rado cinica, ricerca del facile guadagno e dell’immediato successo».

Alle parole egli faceva seguire i fatti, nel senso che assunse iniziative concrete. «Tra queste iniziative voglio segnalarne – scrive Morosini – una, che, con grande lungimiranza, mi sembra abbia anticipato quella che agli occhi di tutti oggi appare, e lo è in realtà, un passo decisivo dello Stato nella lotta contro la ‘ndrangheta. Riporto direttamente la testimonianza di suor Maria Grazia Gallingani: “Monsignor Ferro volle che accogliessimo gli adolescenti che appartenevano a famiglie mafiose residenti nella zona dell’Aspromonte. Con la collaborazione di sacerdoti, educatori ed assistenti sociali li seguì di persona perché fossero sottratti dall’influenza nefasta della mafia”».


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Sul suo impegno pastorale, infine, abbiamo registrato i ricordi di monsignor Antonino Iachino. «All’inizio della Quaresima (così come farà ogni anno), il 27 febbraio 1951, - spiega Iachino - dopo poco più di due mesi dal suo ingresso, scrive la sua prima Lettera pastorale, che già rivela la sua spiritualità e il suo stile indimenticabile. ""Per accorgersi dei poveri – scrive Ferro – bisogna essere umili e semplici, liberandosi dal giogo opprimente, imposto dal culto della ricchezza. Inoltre la carità non prescinde dalla giustizia, che esige anzitutto di restituire la dignità ad ogni uomo, creatura di Dio con sacri e inviolabili diritti, e riconoscere il valore assoluto della sua persona"».

«Il presule, poi, racconta la sua esperienza con la povera gente: "Quando noi osserviamo, con una pena indicibile dell’anima, l’estrema povertà e l’angustia di certe dimore, ove si raccolgono intere famiglie in condizioni di vita indegne di essere umani, quando vediamo tanti fanciulli, che crescono privi di istruzione e di educazione, nonostante il lodevole sforzo delle autorità di moltiplicare la scuole, quando vediamo perpetuarsi la triste condizione dei braccianti, ridotti a un’infima condizione di vita e privi di ogni speranza di ottenere mai alcuna porzione di suolo, la loro forzata inattività per lunghi periodi dell’anno e la spaventosa ignoranza della maggior parte di essi, pur riconoscendo le gravi difficoltà che si incontrano nella soluzione dei più ardui e complessi problemi economici, dobbiamo dolorosamente convincerci che molti cristiani vivono dimentichi dei più gravi doveri di giustizia e di carità e non fanno certamente onore alla fede che professano e alla Chiesa di cui sono membri"» prosegue monsignor Iachino.

Prosegue Iachino: «Questa prima Lettera pastorale rivela subito, in modo evidente, l’orientamento costante della vita e della spiritualità di monsignor Ferro, ma anche le linee pastorali che egli intende seguire: Dio si ama, di fatto, negli altri, specialmente nei sofferenti e nei poveri. Portò ovunque con sé, per farne dono agli altri, la dolcezza di una formazione umana e cristiana tipica della gente umile, povera ma ricca di ingegno e di fede, quale fu la sua famiglia. Il carisma del Santo Fondatore del suo ordine, san Girolamo Emiliani, a cui si avvicinò giovanissimo, ne plasmò profondamente l’animo, facendolo attento alle necessità degli orfani e dei diseredati, dei soli e dei sofferenti, come dimostrerà con le tante opere di assistenza e di carità, da lui promosse e fatte crescere come una "«"proliferazione di amore". Aveva l’occhio purificato dell’amore e sapeva vedere le necessità dei fratelli ovunque».

Dice di lui monsignor Giuseppe Agostino, che prima di essere vescovo è stato suo vicario generale: «Per monsignor Ferro essere pastore significava rispondere alle vicende dell’uomo. Considerava la pastorale come atto di amore, gesto di servizio. Non aveva la tentazione di schematismi, ma aveva l’antenna dello Spirito. Era la sentinella sempre sveglia per cogliere i passaggi di Dio nelle sofferenze altrui». L’arcivescovo è il primo che si mette in cammino per soccorrere le vittime dell’alluvione che nell’ottobre del 1951 colpisce in particolare la zona ionica: la diocesi di Bova e la Locride. Accompagnato dal giovane don Italo Calabrò e da tanti sacerdoti e laici, accorre subito anzitutto nei paesi sperduti e poveri della diocesi di Bova: Roghudi, Casalinuovo, Africo. Ci furono danni enormi e notevoli sofferenze, tanta gente rimase senza casa, paesi interi evacuati. Raggiunse con ogni mezzo i luoghi della tragedia per consolare e presiedere riunioni per interventi urgenti. Attraverso la radio fa appello a tutta la nazione «perché una nobile gara di fraterna solidarietà riporti la serenità e la gioia dove la distruzione e la morte hanno seminato tante rovine». Intanto si fa povero tra i poveri e progetta soccorsi immediati d’emergenza, aprendo chiese, locali parrocchiali, istituti religiosi, seminario per la prima accoglienza. Si avvale di tutti gli aiuti e le risorse che arrivano dalla Divina Provvidenza nella quale credeva davvero.

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