Avvenire di Calabria

L'azione dell'associazione Ashiafatima: «Non esiste sviluppo senza carità»

Volontari reggini in Camerun con i mezzi confiscati alle ‘ndrine

Federico Minniti

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«Aiutiamoli a casa loro». Quante volte, parlando di migranti ed Africa, abbiamo sentito questo slogan? Una ridondanza quasi fastidiosa perché – laddove carica di significato ideologico – spesso era sintomatico di un tentativo di stigmatizzare un “problema”. Capita, però, che incontrando dei volontari, come Claudio Panella, presidente dell’associazione reggina Ashiafatima, il concetto cambia radicalmente prospettiva. «Il diritto di rimanere nella propria terra», come ripete spesso Claudio, quindi altro non è che il riconoscere la dignità di una cultura diversa dalla nostra. Così, quell’associazione dal nome un po’ strano, diventa un soggetto da osservare con più attenzione. Sono reggini, cresciuti all’ombra del campanile, che hanno deciso di giocarsi una partita importante. In Camerun.

Ashiafatima nasce nel 2010 da un gruppo di laici che affiancano le suore di Fatima nel loro percorso a Reggio Calabria. A guidarli è il coraggio (Ashia in camerunense) di credere che «senza carità non esiste futuro». Una realtà esclusivamente reggina che fonda integralmente sul volontariato. «Un progetto ambizioso», specifica subito Claudio. Perché gli chiediamo noi? «Perché parte da un diritto e su di esso si fonda». Bandita qualsiasi forma di assistenzialismo: tutti gli interventi a Bamenda, questo il nome della città del Camerun in cui opera Ashiafatima, infatti, sono basati sull’aiuto formativo a quei territori importando quello sviluppo tecnologico proprio del vecchio Occidente, senza la smania dell’arricchimento facile delle imprese o dell’indottrinamento. Si tratta di un cammino. Fianco a fianco.

«Si tratta di un doppio impegno: il primo è la costruzione di un orfanotrofio. Il secondo scaturisce dal concetto di sostenibilità – spiega il volontario reggino – e prevede la nascita del primo caseificio della zona».

Un’alternativa sul posto, quindi, che parte dalla concretezza dei bisogni emergenti, ma anche delle potenzialità dei territori. Un dialogo da Sud a Sud, quindi è possibile: «Noi lavoriamo grazie ai mezzi che ci sono stati forniti dall’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati: alcuni automezzi da cantiere, infatti, derivano dal patrimonio sottratto ai mafiosi». Un percorso virtuoso: dall’illecito alla gratuità per raggiungere il cuore dell’Africa. «Vediamo, viaggio dopo viaggio, come tanti dei nostri propositi si trasformano in realtà. Mi riferisco alle prime tecniche di costruzione che dopo averle applicate per la costruzione del nostro orfanotrofio, stanno iniziando ad essere “usuali” anche per le singole case di proprietà», spiega Claudio che ribadisce la qualità di un percorso che mette al centro l’uomo, «stiamo riuscendo persino a farli consorziare sotto il punto di vista lavorativo». L’Africa è un continente controverso: ricchezze naturali infinite, povertà pro–capite assoluta: «Si ha un’immagine distorta, abbiamo la certezza che gli africani vogliano rimanere nella propria terra; ci chiedono continuamente: “Dateci un’opportunità”». Un’azione pesante, ma umanamente formativa: «Rimane fondamentale per noi l’affiancamento delle suore di Fatima, averle al nostro fianco vuol dire essere sostenuti », conclude Claudio che ha salutato Bamenda pochi giorni fa: «Noi abbiamo il dovere dell’accoglienza: il nostro Paese deve incidere, però, in un cambiamento epocale. Ossia quello di fornire un’alternativa in quei territori».

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