Avvenire di Calabria

Quelle troppe fragilità nascoste dal consumismo

Dal peccato originale alla società dei consumi: cosa nascondono gli oggetti che acquistiamo?

di Guerino Nuccio Bovalino *

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C’è un'immagine che può funzionare come archetipo per indicare il momento in cui l’essere umano inizia a intrecciare una relazione di dipendenza con gli oggetti di consumo. La scena madre di cui parlo è il momento in cui l’uomo e la donna divengono consapevoli della propria nudità e sentono il bisogno di coprirsi. Logicamente parlo del brano della Bibbia in cui si narra della punizione di Dio ad Adamo ed Eva, rei di aver disobbedito all’ordine di non toccare la mela. Forse una provocazione, ma mi intriga usare questo passaggio perché credo possa essere utilizzato come metafora perfetta e originaria degli esseri umani che necessitano di nascondere la propria fragilità dietro un oggetto.



Ma dalla dimensione religiosa si può scendere verso una metafora più pop, richiamando alla memoria la celebre coperta di Linus, il timido bambino dei Peanuts, caro amico di Charlie Brown, che per affrontare la vita tiene sempre fra le mani un pezzo di stoffa. Donald Winnicott lo classificherebbe come l’oggetto transizionale per eccellenza, ossia uno di quegli oggetti grazie ai quali i bambini riescono a sostenere il momento difficile dell’allontanamento dalla madre: è un oggetto bussola con cui si orientano nel mondo senza di lei. La coperta di Linus è un’altra metafora di un uomo che ha bisogno di un oggetto feticcio per affrontare la realtà.


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La società degli oggetti, quindi, nasce nel momento in cui l’essere umano ha coscienza di doversi vestire e travestire. Dal momento stesso in cui ha consapevolezza di se stesso, gettato nel mondo, direbbe Heidegger. Marx, con il suo concetto di feticismo delle merci, concetto filosofico applicato all’era industriale, indica il valore sociale oltre che funzionale degli oggetti di consumo, considerando le merci il risultato di un processo di produzione iniquo e alienante nel quale l’uomo partecipa a una piccola parte del processo di creazione di un qualcosa – la merce appunto – che non gli appartiene e non sente frutto del suo ingegno.

A contrastare questa teoria critica ci ha pensato il tempo nuovo dell’era reaganiana, nel mondo occidentale, dove nasce il mito dello splendore delle merci e del consumismo come viatico per la felicità. Una festa dove protagonista è l’oggetto, investito del compito di farci scordare i problemi, un inno alla gioia dove la materia diviene il placebo per poter superare i problemi.

Il Black Friday, l’ultimo venerdì di novembre, giorno in cui i negozi offrono eccezionali promozioni al fine di incrementare le proprie vendite, è uno dei rituali di questa festa laica del consumo. Forse uno dei momenti rivelatori della vera essenza del post-capitalismo, proprio perché ne rappresenta l’eccesso e non si nasconde nella versione quotidiana, che tende a diluire e a rendere poco riconoscibili i caratteri primari del consumismo. La folle corsa agli acquisti, le file infinite per accaparrarsi il prodotto desiderato, i litigi e le scene di violenza che caratterizzano questa giornata, sono eventi che, se osservati e analizzati, costituiscono un gigantesco microscopio che amplifica e rende visibile “a occhio nudo” la natura mistica assunta dagli oggetti: sempre meno ricercati per il loro uso pratico, sono sempre più desiderabili per il valore estetico e simbolico che “infondono” in chi li possiede, un messaggio che gli oggetti trasmettono anche agli altri che ce li vedono indossare o semplicemente usare.



È un’esperienza di consumo tribale, poiché l’oggetto esibito ci dona un determinato carisma, un’identità precisa, ci fa appartenere di diritto a una tribù postmoderna. Per molti versi poco dissimile dalle tribù classiche: gli oggetti che possediamo comunicano ciò che siamo o – poco differisce – ciò che vogliamo gli altri pensino di noi. L’oggetto di consumo, che bramiamo e acquistiamo sacrificando spesso spese più urgenti e necessarie, è la foglia adamitica con cui celiamo le nostre fragilità, consapevoli di dover riempire un vuoto che ci assale spesso perché non più capaci di riconnetterci con il vero senso della nostra esistenza.

A mancarci è la sensazione che ci rende completi, quella sensazione di pienezza che ricerchiamo altrove ma che si cela nel nostro cuore e nella nostra mente, luoghi nei quali la verità potrebbe rivelarsi semplice per com'è, dandoci la forza di trovare la gioia anche nella nostra “nudità” e a dispetto della nostra fragilità, rendendoci consapevoli che uno smartphone, la foglia digitale di oggi, ci illude di poter riempire quel vuoto interiore solo momentaneamente, fino al prossimo modello.

* sociologo e ricercatore del LEIRIS,
Laboratorio sull’immaginario sociale
dell’Università Paul Valéry di Montpellier     

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