Avvenire di Calabria

Il confronto è stato promosso dall'arcidiocesi di Reggio Calabria - Bova attraverso tre sue "articolazioni"

Dialogo ebrei-cristiani, l’attualità del profeta Geremia

La riflessione centrale della giornata affidata alla professoressa Bartolini De Angeli dell'università Bicocca di Milano

di Augusto Sabatini

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Il 4 febbraio si è svolta (dalle 18 alle 20.15, su piattaforma Zoom), quale iniziativa per la XXXIII giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo con l‘ebraismo, la lettura del profeta Geremia intitolata “… Realizzerò la mia buona promessa …”(Ger 29, 10) a cura della prof. Elena Lea BARTOLINI DE ANGELI.

Docente di Giudaismo ed Ermeneutica Ebraica presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale (ISSR - Milano) e l'Università degli Studi di Milano Bicocca, nonché di Ebraico biblico e moderno presso il Centro Culturale Protestante di Milano (Libreria Claudiana) e di Antropologia del dialogo, la BARTOLINI DE ANGELI è anche saggista e pubblicista (direttore della Collana "Studi giudaici" per le Edizioni Effatà e consulente di redazione per le riviste Terrasanta e Jesus), svolge numerose docenze e collaborazioni sia con altre università (tra cui Ulpan Bet ha'Am di Gerusalemme) e centri culturali.


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L’incontro ha visto protagonisti in collegamento circa 70 account, di cui diversi aperti per consentire la presenza a più partecipanti insieme. Dopo i saluti di don Pietro Sergi (quale vicario diocesano per la pastorale della cultura e delegato dall’arcivescovo, monsignor Fortunato Morrone) e dei rappresentanti degli enti co-organizzatori dell’evento: Maria Tripodi (per il MEIC) e Gigliola Pedullà (per la sezione del S.A.E. di Reggio Calabria); ha avuto luogo la presentazione – sia della relatrice, sia dell’iniziativa – a cura di Paolo Virdia (sempre per il MEIC di Reggio Calabria) ed è stato letto in apertura il testo di Geremia 29, 1-14.

La profezia di Geremia

Il tema (scelto dalla CEI per questa giornata di dialogo, che in più diocesi viene celebrata “in differita” rispetto alla data ordinaria di suo svolgimento) verteva il bellissimo testo sulla speranza di cui è nota l’immagine del ramo di mandorlo in fiore apparso in visione a Geremia, simbolo del Signore che vigila sulla propria parola per realizzarla. Nel suo approfondimento, la professoressa Bartolini De Angeli ha privilegiato più che un’esegesi della struttura letteraria del testo, una sua rilettura in prospettiva spirituale, chiarendo in premessa che è incerto se si tratti o meno d’una pericope già in origine facente parte del libro di Geremia o se si tratti d’una sua rivisitazione, a mo’ di meditazione, svolta solo in seguito e poi postumamente inserita nel testo del libro profetico.

Di certo, la visione del ramo ha una forza evocativa grande: Shached (mandorlo) – termine che ha la stessa radice di schoched (vigilanza) – è il fiore che anticipa ed annunzia la fioritura primaverile. Ed il Signore ispira a Geremia d’assumere lo stesso ruolo, di sentinella vigile ed insieme di testimone d’un futuro di speranza che è vicino. Collocata subito dopo la Torah (Pentateuco), la profezia di Geremia nel mondo ebraico è letta come uno sviluppo d’una rivelazione ormai compiuta – e contenuta appunto nella Torah – ma di cui deve essere ancora còlto e svelato ogni possibile senso.

Già il nome del profeta – Iarmiau, che significa “Il Signore costituisce, innalza” – chiarisce molto del progetto divino, della vocazione cui esso viene chiamato. Si tratta d’un discendente di sacerdoti, della cittadina di Anatot, e forse, tra questi di Ebiatar (figura emblematica delle lacerazioni esistenziali patite da Geremia, perché costretto a spogliarsi del proprio sacro ufficio per una sua conduzione non ortodossa).

Il tempo della profezia è collocato intorno al 627 a.C., nel contesto della riforma religiosa di Giosia, in un’epoca assai complicata per il futuro d’Israele. Solo pochi anni dopo, nel 597, affermatasi la dominazione assira, avverrà infatti la prima grande deportazione in Babilonia che esordirà con il trasferimento là delle classi dirigenti del popolo ebraico, in principal luogo del regno del Nord (e cui seguirà la distruzione di Gerusalemme ad opera di Nabucodonosor). Geremia vive nel regno del Sud e sarà deportato solo in un secondo momento. Ma il regno del Sud è comunque già da ora stretto nella morsa, tra Babilonia e l’Egitto, con cui il regno del Sud proverà ad allearsi (infruttuosamente) e che a sua volta lo fagociterà.

Che profezia compie Geremia?

Egli si dissocia dal sentir comune e, ponendo l’accento sulle criticità di quella stagione, lamenta che il culto non è autentico, che il Tempio viene meno, che il popolo è in dissesto, che l’Egitto non è un potenziale alleato (perché è pronto, anzi, ad invadere il paese), che molti sono i falsi profeti che in questo tempo stanno dividendo il popolo (e lo illudono, facendogli credere che stia attraversando solo una fase breve di difficoltà).

E giocoforza, quando scrive i suoi oracoli, ha tutti contro (tanto che verrà costretto a distruggere il primo di questi testi, sebbene poi fortunosamente riesca a ricostruirlo).

Geremia lotta, dunque. E lotta anche contro Dio, sentendosi inadeguato e protestando per esser stato gravato d’un compito, per mostrare visibilmente d’esser profeta di speranza e non di dolore, che gli appare troppo “amaro”. Perché tra i segni che Dio gli chiede – per palesare al popolo che non è sposa fedele del Signore – vi sarà anche la dolorosissima rinuncia al matrimonio, cui accetterà di dire di sì. Il profeta affronta anche la tensione divisiva tra i deportati, ritenuti dei “puniti”, ed i rimasti in patria, ritenuti dei prediletti “salvati”. Le macerie della deportazione, della crisi sociale e di quella sua personale, sono dunque l’humus del “nuovo” che egli annuncerà.

Non si sa come e quando la profezia di Geremia abbia raggiunto i suoi destinatari (sebbene il testo menzioni per nome i soggetti da lui “delegati” a recare la sua “lettera agli esiliati”). Anche se però il suo bellissimo messaggio fosse stato concepito e redatto dopo il ritorno da Babilonia, esso getta comunque una luce molto eloquente su come prima di tale evento e dopo l’inizio dell’esilio una tale vicenda sia stata vissuta.

Le parole più vicine al fondamentale pensiero di Geremia sono nel v. 4: egli dice che la deportazione non è frutto di errori umani (alleanze sbagliate) ma di un progetto divino (cosa che ovviamente non piacque ai suoi ascoltatori). Non però solo una punizione (che sarebbe fine a sé stessa e non propria di Dio, buono e misericordioso), ma anche un’occasione, un’opportunità di redenzione, se vissuta (l’esperienza dell’esilio) con il giusto spirito.

Esilio (galut in ebraico) è termine che viene del resto da una radice verbale la quale, tra l’altro, significa anche “rivelare”: con esso si vorrebbe dire che anche in momenti limite, in cui il buio sembra totale ed assoluto, esiste spazio alla luce della rivelazione ed esiste una speranza, anche se a lungo temine. E se pure l’esilio fosse lungo (70 anni, durò quello in Babilonia), il popolo che voglia essere di Dio può esserlo anche in simili prove.

Quali imperativi ed esortazioni pone Geremia al popolo?

Lo si dice nei vv. 5-7. Costruite case (solide, non le capanne di Sukkot; battim, le chiama, cioè edifici di pietre e mattoni, in cui l’abitare è tendenzialmente “per sempre”); e abitatele (pensate, cioè, alla stabilità).

Piantate orti e giardini e mangiatene i frutti (pensate al sostentamento, ma anche alla bellezza).

Prendete mogli e mariti e generate figli e figlie (abbiate là dei discendenti, continuate la storia – la successione delle generazioni – anche là; ossia: siate fecondi, vivete una realizzazione in cui Dio sia presente attraverso di voi, non banalmente fertili; ed ancora: non abbiate in spregio i matrimoni misti. La salvezza di Dio viene pure da essi, come nel post esodo sarà ben riconosciuto, concependo e redigendo il libro di Ruth, con la storia dell’origine della stirpe di Davide appunto da un matrimonio misto).

Cercate lo shalom del paese in cui siete chiamati a vivere: shalom significa anche “benessere”, in senso psico-fisico (ossia: fate del bene e pregate anche per i vostri nemici …); non pensate né sperate, invece, come nel salmo 137, 8-9 (un sinonimo della politica della revanche, da attuare tramite nuove alleanze prima e poi la sopraffazione anche violenta del proprio avversario ed attuale persecutore), ma rimettete nelle mani di Dio i vostri sentimenti per chiedere che sia Lui e non voi a fare giustizia: ossia, nella diaspora praticate il perdono e non la rivalsa. Perché praticare e far praticare il perdono non è allontanarsi da Dio, ma contribuire a realizzare l’universale attuazione del bene che Dio vuole per le genti d’Abramo, ovunque vivano. Ed in diaspora non bisogna dimenticarsi della propria terra, ma accettare la diaspora e viverla bene finché Dio vi farà tornare.

L’amore verso i nemici

Il tema (dell’amore verso i nemici), fondato nella Torah (Esodo, Deuteronomio e Levitico) è in Geremia coniugato poi con un principio di ragionevolezza, assai pratico e coerente: amare chi ci fa del male non è affatto facile, ma comunque è giusto e possibile (Talmud 5, 31). Ed il profeta aggiunge, per rafforzare il suo invito, la notissima parabola dei fichi buoni e cattivi (29, 17).  Dio distingue buoni e cattivi. I buoni sono i deportati che, nonostante questa prova, hanno a cuore l’insegnamento di Dio e rigettano i suggerimenti dei falsi profeti; sono coloro che nell’esilio sono stati capaci di bene e di speranza, per sé e per i loro nemici. I fichi marci sono i rimasti in patria, apparentemente più fortunati dei deportati ma incapaci di denunciare le ingiustizie sociali interne alla comunità, la religiosità solo formale dei più e l’opportunismo doppiogiochista di chi prova a galleggiare in situazioni d’incertezza salvando egoisticamente il possibile. E, per di più, si sentono loro i veri “giusti”.

Per Geremia, poi, la vera patria è dove Israele serve Dio mettendone in pratica i precetti (“… faremo e ascolteremo”, aveva detto il popolo a Mosè): non, dunque, una Terra Promessa individuabile esclusivamente in senso geografico (lì e non altrove), ma presente là dove, dovunque si trovi fisicamente la sua gente, questa è sempre rivolta nella mente e nel cuore al luogo fisico da cui s’è dovuta allontanare ed  insieme, pur ciononostante, riesce ad essere santa, ossia fedele all’insegnamento di Dio.

E questo rileva non solo per la prima diaspora, ma anche per quella successiva al 70 d.C., e per quella attuale (in cui esiste lo stato d’Israele ma occupa solo una porzione della Terra Promessa delle scritture). L’interpretazione delle parole di Geremia come invito ad un nuovo esodo (dall’Egitto) non è però corretta né condivisibile: in esilio si è lontani e si è popolo di Dio se non si perde il legame con la Terra Promessa anche in senso fisico.

La profezia di Geremia riletta in chiave attuale

Un bellissimo commento a Geremia (edito da Giuntina) di Andre NEHER ha attualizzato la rilettura del profeta addirittura alla stagione terribile della shoah, ribadendo che la vera pace non è nella facilità, ma nell’incastonare una vita sacra nella storia umana, qualunque essa sia e dovunque essa si svolgerà. Perché è nella custodia della centralità della memoria della Torah, dell’insegnamento divino, che avverrà la sconfitta del male (il quale non potrà vincere se l’esiliato sa restarle fedele). Grande il messaggio per gli esuli e gli smarriti d’ogni tempo che dunque Geremia ci lascia, e cioè che: la speranza si fonda sulla grande apertura nella fiducia ad una Parola che, quale evento di Dio, è sempre molto di più di quanto apparentemente ci dice o ci significa di Lui.

Per noi occidentali non è facile prestargli ascolto: c’è troppo l’esigenza di capire e spiegare Dio, là dove non si tratta invece tanto di ragionare, ma piuttosto di vivere con Lui e fidandosi di Lui. Nell’ebraismo, invece, anche se questa tentazione è sorta (dopo il medioevo), i lettori più avveduti e ispirati anche oggi ci dicono che Dio non è né inossidabile né spiegabile, ma ha una sua dinamica di vita intima, che resta un mistero e che l’unica cosa che conta è vivere in rapporto con Lui. Nè sta a noi di discettarne, balbettando penosamente, come dice anche San Paolo, ma di accettare questa nostra dimensione. E, del resto, un prezioso intervento nel dibattito ha con straordinaria intensità affermato che è “una lettera, quella del profeta, che ancora e sempre riempie di commozione. Un incoraggiamento potente, che riesce a far digerire esperienze di male incredibile”.


PER APPROFONDIRE: Dialogo ebrei-cristiani, un comune patrimonio spirituale


E Chagall ha visionariamente effigiato Geremia in modo simbolicamente assai prezioso e vero (cogliendo a pieno il senso di quel messaggio): solo, con sé stesso e con alle spalle i tanti “esiliati” d’ogni epoca, ma ancora con il Libro in mano.

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