Avvenire di Calabria

Fake News, il mercato delle bugie

Paola Dalla Torre

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Una nuova indagine condotta da Trend Micro, multinazionale che si occupa di sicurezza informatica e ripresa da Technology Review, la rivista del MIT, analizza il business terrificante delle fake news e quanto queste possano screditare persone e influenzare opinioni. Anche se è difficile fare delle stime precise, si sa che la fake economy – così come è stata battezzata l’economia orbitante intorno alla disinformazione online – muove miliardi. Ma comprare fake news non costa, poi, così tanto. Possono bastare pure poche decine di dollari per mettere in Rete una notizia inventata, mentre i prezzi salgono quando si tratta di pubblicizzarla.

Questa ricerca parte da un presupposto: per produrre fake ci vogliono degli strumenti. Sistemi che, stando a questa nuova analisi, si possono reperire sul web in Cina come in Russia, nel Medio Oriente quanto nel mondo anglofono. E non è necessario rivolgersi al mercato nero della Rete, si trovano anche facilmente. Prendiamo, per esempio, di voler acquistare un articolo falso. Ecco che un distributore di contenuti cinese, Xiezuobang, ci dà la possibilità di comprarlo a circa 30 dollari. Quick Follow Now, azienda che parla inglese, ci permette di avere 2.500 account Twitter che condividono lo stesso link. Bastano 25 dollari. Vogliamo far comparire un video nella pagina principale di YouTube per due minuti? Ce lo consente la russa SMOService: si pagano 621 dollari e il filmato è visibile per tutti. Sempre all’ombra, virtuale, del Cremlino si trova un’altra compagnia interessante: Jet-s che si offre di manipolare le petizioni online, come quelle promosse da Change.org. 1.605 dollari si trasformano in 10mila firme, con poco più del doppio ne otteniamo 25mila.

Al di là dei singoli servizi, l’analisi di Trend Micro si spinge un po’ più in là: ipotizza quanto verrebbero a costare delle vere campagne di disinformazione. I prezzi, in questo caso, non sembrano propriamente alla portata di tutti. Ma nemmeno eccessivi se si pensa che a essere interessati, in questo caso, non sono i singoli individui bensì organizzazioni, aziende, governi e partiti politici. Aiutare a istigare una protesta offline – quindi su strada – potrebbe richiedere un totale di 200mila dollari. Il prezzo tiene conto del fatto che si ha prima bisogno di circa mille persone reali: devono avviare la discussione online. Un dibattito che risulta in contenuti fake, da pompare attraverso like artificiali, in modo da farli diventare più popolari e più visibili. Poi c’è bisogno della pubblicità dell’evento e infine si arriva all’organizzazione della protesta. E ancora: screditare il lavoro di un giornalista è roba da “soli” 55mila dollari, tra falsi account Twitter, falsi articoli negativi e falsi commenti al vetriolo sugli articoli – veri – del reporter.

Uno scenario abbastanza inquietante e che ci suggerisce una conclusione amara: nonostante ci siano tante iniziative che cercano di contrastare la diffusione delle notizie false – sia da parte di piccoli volontari sia dei big dell’hi-tech come Google, Facebook e Wikipedia – fino a quando le fake news costeranno così poco (in confronto anche a quanto costa produrre contenuti veri), sarà tutt’altro che facile.

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