Avvenire di Calabria

Giornalisti con l’asterisco

La riflessione di monsignor Savino partendo dalla storia di Antonio Megalizzi.

Francesco Savino *

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Non intratur in veritatem nisi per caritatem. Agostino, Contra Faustum manichaeum 
 
“Siamo membra gli uni degli altri” (Ef 4, 25). Dalle Community alle Comunità è il tema scelto da Papa Francesco per la 53ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali.
 
In un discorso di qualche mese fa, Papa Francesco ha proposto un trittico di concetti con il quale “inquadrare” – potremmo dire – la professione del giornalista: periferie, verità e speranza. Si tratta, come sapete, di parole-chiave nel discorso pubblico di questo Pontefice. L’aspetto che vorrei tuttavia sottolineare è legato alla posizione centrale della verità, e al modo in cui essa, in questa sequenza, viene ridefinita dalle idee “laterali” di periferie e speranza.
 
In fondo non sarebbe poi una grande scoperta indicare nella verità il compito precipuo di chi si occupa di fare informazione, di curare la comunicazione. Il punto, però, è chiedersi di quale verità si sta parlando qui. E la questione – lo comprendete – è ancor più sensibile per chi professa la sua fede in Colui che ha detto «Io sono la verità» (Gv 14,6) e ancora «Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 32).
 
Dov’è che la verità si fa persona? Quand’è che la verità è tale da donare la libertà?
 
È sullo sfondo di questi interrogativi, mi pare, che quel trittico di cui vi dicevo – periferie/verità/speranza – trova un senso profondo. 
 
Le periferie danno una casa alla verità, le permettono di farsi volto, epifania, incontro. La speranza, dal canto suo, dice il tempo della verità, la sua tensione verso qualcosa che deve ancora venire.
Le periferie insegnano che la verità si abita, che essa non è un’area delimitabile dalle coordinate geometriche di un piano cartesiano, bensì un luogo, un punto di incontro – come lascia intendere meglio la lingua tedesca, con la sua parola per dire “luogo”, Ort. Alla verità, potremmo dire, ci si dà appuntamento con qualcuno, come al centro di una piazza o alla metà di un ponte. La speranza fa di quella verità il segno di un evento; anzi, di un av-vento che è anche un e-vento: un venire a me che, nello stesso tempo in cui mi raggiunge, mi invia, mi manda alla scoperta; una promessa che non esaurisce l’attesa, ma riapre la ricerca.
 
Vorrei che queste immagini non risultassero eteree astrazioni per voi. Proverò a tradurle nel concreto.
Cosa può significare, nell’esperienza quotidiana di una persona, ‘dare un volto’ alla verità e lasciare che essa ‘avvenga nella forma di una promessa’? Credo che la risposta a questa domanda abbia molto a che fare con quelli che nella vostra professione vengono chiamati, talvolta non senza un velo di compiaciuta enfasi, i «fatti»: l’emblema dell’oggettività, la materia nuda e cruda del racconto, cui occorre attenersi, tenendola ben al riparo dalle presunte «interpretazioni». Sono così importanti, i fatti, da richiedere, in quest’epoca di cosiddette fake news e post-verità, uno scrupoloso protocollo di verifica – quello che voi chiamate “fact-checking”, appunto.
 
Bene, quello che vorrei suggerire è che per ripensare la verità nei termini in cui dicevo poc’anzi, dovremmo forse superare questa rigidità dei “fatti”. Comprendetemi: con questo non voglio certamente invitarvi a fare professione di relativismo, o ad affermare, con il filosofo Nietzsche, che «non esistono fatti, ma solo interpretazioni».
 
Il punto è un altro: possiamo accontentarci dei fatti? Possiamo davvero credere di aver esaurito il nostro compito di verità, enunciando i fatti? È a quest’altezza, vedete, che quelle due dimensioni della verità di cui dicevo, il volto e la promessa, il luogo della verità e il suo tempo, si pongono per noi come una autentica sfida. 
 
Mi lascio aiutare ancora dalle parole del Papa: «Un giornalista non dovrebbe sentirsi a posto per il solo fatto di aver raccontato, secondo la propria libera e consapevole responsabilità, un evento. E’ chiamato a tenere aperto uno spazio di uscita, di senso, di speranza».
 
È questo «spazio di uscita», mi sembra, l’emblema di quel ‘dare un volto alla verità, darle la forma di una promessa’, di cui si diceva. Per ricavarlo, questo «spazio di uscita», questo margine di senso, occorre mostrare il doppio-fondo dei fatti, sprigionare la loro riserva di significatività. Si tratta, cioè, di mettere da parte quella che un altro filosofo, Martin Heidegger, chiama la «ragione calcolante»: la ragione che pretende di possedere la realtà, di reificarla, di ridurla a qualcosa che si possa tenere «sotto mano».
 
I fatti non sono oggetti che le mie parole possano squadrare e catalogare alla perfezione. C’è un velo di opacità, in essi, qualcosa che resiste al mio sguardo. Perché? Perché essi stessi, questi stessi fatti, recano dentro di sé degli sguardi sul mondo; sono, appunto, volti di persone. Vedete, allora, che non posso fare esercizio di verità sui fatti, se non avverto il mio sguardo della necessità di usare cautela e delicatezza.
 
Per dare alla verità il respiro della speranza occorre fare questo sforzo aggiuntivo rispetto all’oggettività del cronista. Occorre riconoscere che nella materia del mio racconto ci sono oggetti abitati da una ulteriorità, più-che-oggetti, se volete. Ed è in questo senso che il Papa invita a trovarne la casa nelle periferie, cioè là dove la precarietà del senso e talvolta la vera e propria sofferenza protestano in forma eclatante l’impossibilità di essere meramente “oggettivi” nel racconto. La periferia, dunque, come pedagogia della verità.
 
Ora, come si fa a mettere in pratica questo compito? Come si fa a dire la verità, lasciando a quest’ultima la sua riserva di senso? In che modo io, Vescovo, posso provare a suggerire a chi come voi si fa carico di questo mestiere difficile e affascinante che è il giornalismo qualche indicazione utile per affrontare questa sfida?
 
L’espediente che vorrei utilizzare è proporvi di affiancare alla vostra etica professionale anche una carità professionale. E vorrei completare questo mio modesto contributo provando a spiegare questa espressione.
 
Se la verità è cosa diversa da una rendicontazione “oggettiva” di fatti, se è invece impastata di volti e di speranza, allora la carta d’identità di un professionista della verità – perché tali considero voi giornalisti, professionisti della verità! – non può limitarsi ad una serie di norme deontologiche, ad una serie di doveri. Non è più il metro rigido del diritto, con le sue tre massime ulpianee (neminem laedere, honeste vivere, suum cuique tribuere) a venirci in aiuto qui. A doverci soccorrere è invece un’altra istanza morale – non etica, ma morale: la carità, appunto. È solo amando che si può servire veramente la verità.
 
Sant’Agostino, lo sapete, ha spiegato questo principio con insuperabile chiarezza: «non si entra nella verità, se non per mezzo dell’amore». Nessuna parola è usata a caso, in questa espressione. Nella verità, innanzitutto, «si entra»: non è, come appunto dicevamo prima, qualcosa che si possa possedere, mettere nero su bianco, rinchiudere in un intervallo di ‘battute’. No, la verità ci eccede, è più grande di noi. Quello che ci è dato di fare è di metterci alla sua ricerca e, quando sentiamo di averla trovata, di domandarle ospitalità. Come? Per mezzo dell’amore. Il che vale a dire: questa ricerca non andrà mai a buon fine, sino a quando ci ostineremo a voler capire come stanno le cose facendo uso della sola intelligenza. Dobbiamo lasciarci coinvolgere dalla realtà che intendiamo raccontare; entrare in relazione con essa. Dobbiamo sporcarci le mani con i fatti della storia. Questo significa «amare la verità».
 
Ed è bello pensare che questa relazione stabilita da Agostino, l’intimo legame tra verità e carità (cioè amore) funzioni in entrambi i sensi in cui la leggiamo: non solo la verità ha bisogno dell’amore, ma anche l’amore ha bisogno della verità, come sua convalida indicativa dell’integralità della persona umana. Quando viviamo l’amore, anche quando amiamo proprio una persona specifica nella nostra esperienza di vita, presto o tardi arriva sempre il momento in cui dobbiamo chiederci se la amiamo dav-vero, vera-mente – insomma, se la amiamo nella verità – con tutte le implicazioni esistenziali che la risposta ad una tale domanda implica. Perché anche l’amore non va da nessuna parte se non è accompagnato dalla verità.
 
Ecco perché oggi vi chiedo di affiancare alla deontologia professionale, che sempre deve sostenere la vostra identità di giornalisti, anche una carità professionale. Sarebbe bello se, oltre ai corsi deontologici che il vostro Ordine vi richiede per l’obbligo della formazione permanente, vi fosse anche qualche corso dedicato alla carità professionale, a come amare la propria professione e a come amare, soprattutto, le storie che attraverso la vostra professione incontrate.
 
Perché è evidente che quando parlo di “carità professionale” non intendo semplicemente invitarvi ad amare quello che fate. Questo è sacrosanto. Ma a dover essere oggetto di amore, prima ancora che voi stessi in quanto cercatori di verità, devono essere le persone a cui quella ricerca di verità è dedicata.
 
Solo con gli occhi dell’amore riuscirete a comprendere veramente – appunto, nella verità – i fatti e le storie che sarete chiamati a raccontare nelle vostre cronache. E questo sguardo d’amore – badate bene – non dev’essere scambiato per un entusiasmo ingenuo, un po’ naïf, come sembrerebbe implicato, ad esempio, nell’orrido modo con il quale il termine «buonismo» è stato ossessivamente messo alla gogna nel dibattito pubblico italiano degli ultimi mesi.
 
Amare le storie e i volti che vi viene chiesto di raccontare non significa essere degli ingenui, degli illusi, dei velleitari. Non significa misconoscere le difficoltà, le crisi, le brutture che punteggiano la realtà nella quale viviamo. Al contrario: è invece proprio l’atteggiamento di chi etichetta come “buonista” colui che coniuga verità e carità, è questo atteggiamento a portare a semplificazioni inaccettabili nel discorso pubblico.
 
A questo proposito, lasciate che accenda una spia d’allarme contro le semplificazioni indotte da un fenomeno di cui abbiamo parlato insieme già in altre occasioni: la disintermediazione prodotta dall’uso dei nuovi media nella comunicazione pubblica. Nella prospettiva aperta dalla discussione di quest’oggi, possiamo chiederci: quale margine di carità c’è nel modello della disintermediazione digitale? C’è amore nella comunicazione resa possibile dall’interconnessione della Rete, che sostituisce la faccia, il Volto di cui scriveva Emmanuel Lévinas, con un’interfaccia virtuale? Voglio citare qui un ampio stralcio dell’Enciclica Laudato sì: «le dinamiche dei media e del mondo digitale – scrive il Papa – quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità. I grandi sapienti del passato, in questo contesto, correrebbero il rischio di vedere soffocata la loro sapienza in mezzo al rumore dispersivo dell’informazione. Questo ci richiede uno sforzo affinché tali mezzi si traducano in un nuovo sviluppo culturale dell’umanità e non in un deterioramento della sua ricchezza più profonda. La vera sapienza, frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone, non si acquisisce con una mera accumulazione di dati che finisce per saturare e confondere, in una specie di inquinamento mentale. Nello stesso tempo, le relazioni reali con gli altri, con tutte le sfide che implicano, tendono ad essere sostituite da un tipo di comunicazione mediata da internet. Ciò permette di selezionare o eliminare le relazioni secondo il nostro arbitrio, e così si genera spesso un nuovo tipo di emozioni artificiali, che hanno a che vedere più con dispositivi e schermi che con le persone e la natura. I mezzi attuali permettono che comunichiamo tra noi e che condividiamo conoscenze e affetti. Tuttavia, a volte anche ci impediscono di prendere contatto diretto con l’angoscia, con il tremore, con la gioia dell’altro e con la complessità della sua esperienza personale».
 
Mi pare che non ci sia immagine migliore per qualificare il modo in cui amare cambia il nostro modo di comunicare: al contrario dell’artificiosa interconnessione virtuale, lascia intendere il Papa, l’amore permette di «prendere contatto diretto con l’angoscia, con il tremore, con la gioia dell’altro e con la complessità della sua esperienza personale». Altro che buonisti! Gli innamorati della verità hanno a che fare con la durezza, con l’angoscia, con il «tremore» nel quale talvolta la vita può sprofondare un essere umano! Anzi: è solo amando la verità, che questa mi si svela non come una evidenza matematica, non come un dato statistico, non come il responso di un sondaggio ottenuto magari a suon di “Like”, bensì con la complessità di una vita umana venata da contraddizioni, limiti, dolori. Non c’è miglior antidoto contro la semplificazione, contro l’appiattimento dei fatti e delle notizie, che l’amore nella verità e per la verità.
 
Lasciate, in conclusione, che indichi un esempio, una testimonianza di quanto sto provando a dire. «Testimonianza», lo sapete, in greco antico si traduce con un termine particolarmente significativo per la tradizione cristiana: martyria, martirio. Ed è sullo sfondo di questa idea di martirio – come testimonianza della verità attraverso l’amore – che voglio dedicare questo nostro momento, questa nostra conversazione ad Antonio Megalizzi, il reporter ventinovenne morto a Strasburgo poco più di un mese fa, in quella che è passata alle cronache come la strage dei mercatini di Natale. 
 
Mi ha molto colpito, nei giorni seguenti l’accaduto, ascoltare le parole con cui amici, familiari, colleghi descrivevano la figura di questo straordinario giovane, icona, forse, di un’intera nostra generazione. In queste testimonianze emergeva con chiarezza un duplice, ostinato, amore di Antonio: da un lato, verso la professione giornalistica, tanto che ottenere il sospirato “tesserino” dell’Ordine era diventato per lui un vero e proprio traguardo di vita; dall’altro lato, l’amore verso la politica, il bene comune, e in particolare verso l’Unione Europea e il suo funzionamento. Che esempio paradigmatico – e controcorrente, come solo i martiri e i profeti sanno essere – di quel connubio di amore e ricerca della verità, di cui abbiamo discusso!
 
Credo che questo giovane dai sogni grandi sia l’emblema di quella necessità di cui vi parlavo: necessità di innamorarsi della realtà che si vuole raccontare, per poterla raccontare veramente. Necessità che nasce dal cuore, contro tutto e tutti, contro una vulgata che ti dice di diffidare, nell’ordine, della stampa, della politica, dell’Unione Europea. Che amore coraggioso!
 
Tra gli aneddoti su Megalizzi raccontati dagli amici, mi ha incuriosito il riferimento al «concetto dell’asterisco», cui il giovane reporter avrebbe dedicato un suo scritto. L’asterisco, sosteneva Antonio, è una sorta di marchio di unicità, che rende speciali le persone e le cose; un valore aggiunto, un bonus di significato da applicare alle cose che si amano.
Bene: al termine della nostra discussione, quale migliore augurio posso rivolgervi se non quello di essere “giornalisti*”, giornalisti con l’asterisco?! 
 
Usate gli asterischi nella vostra professione. Cospargete di segni d’attenzione e di amore le storie, le persone, i volti che fate oggetto dei vostri racconti. Fate che nessuna notizia sia una “semplice” notizia, che nessun fatto sia un “semplice” fatto. Scrivete notizie*, narrate fatti*. Innamoratevi dell’unicità dei frammenti di vita di cui vi occupate e fate che il loro significato sia il risultato di un rapporto vero che stabilite con essi.
 
Permettetemi, infine, di ringraziarvi e salutarvi con le parole del Santo Padre:
 
«Grazie perché come giornalisti rivolgete lo sguardo alle persone e chiamate ingiustizia quello che è ingiustizia. Grazie perché parlate anche delle cose belle che forse finiscono meno in prima pagina, ma che mettono le persone al centro. Grazie perché con il vostro stile cristiano accompagnate il lavoro della Chiesa. Vi auguro di continuare a fare un giornalismo di persone e per le persone».
 
* Vescovo di Cassano allo Jonio

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