Avvenire di Calabria

Nel video del primo singolo del ''trapper'', i ragazzini impugnano pistole e sfoggiano costosissimi orologi

Glock 21, se il canto di malavita diventa ”trap”

Il cantante è nipote e cugino di ndranghetisti della cosca Bellocco

Francesco Creazzo

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«Girando coi volti neri capiamo fra sti quartieri, portiamo roba pesante addosso: sti borselli pieni». Attacca così (forse, il testo è difficile da interpretare perché il cantante «biascica») la prima strofa di “Numeri uno”, canzone trap firmata da Glock21, al secolo Domenico Bellocco. Il cantante è nipote e cugino di ndranghetisti dell’omonima famiglia che controlla Rosarno e, assieme ai Pesce, ai Piromalli, ai Molè, l’intera Piana di Gioia Tauro e buona parte del narcotraffico internazionale.
Il singolo del giovane Bellocco, lanciato su youtube lo scorso 16 febbraio, ha già ottenuto oltre 60mila visualizzazioni. Nel videoclip, girato tra i palazzoni grigi della cittadina pianigiana, Bellocco e altri ragazzi, quasi tutti con parentele pesanti, ricalcano gli stereotipi della trap, eccezion fatta per la droga: pistole, vestiti costosi, auto e moto, donne, gioielli. Il tutto con un’orribile sapore di ndrina.
Nel testo del giovane rosarnese, oltre ai riferimenti al presunto lusso vissuto da sé stesso e dai propri amici, alla vita «in strada coi miei fratelli» e ai tradimenti dei «finti amici», anche alcuni passaggi che, più che il solito “brag” (la vanteria) insito nel genere musicale, sembrano precisi messaggi: «Rosarno è il paese nostro», «non scherza la mia gente, ti riduce all’osso» e ancora «le vostre storie falso contante, le nostre storie carta stampata». Un riferimento agli articoli di giornale su parenti e nemici della famiglia arrestati o uccisi?
Al di là delle ipotesi esegetiche sulle elementari liriche del trapper rosarnese, ad emergere sono due dati principali. Da un lato, si è definitivamente completata l’elevazione della figura del malavitoso ad antieroe: una perfetta fusione con il mondo vuoto, materialistico ed edonista della trap, i cui simboli sono le droghe sintetiche, i gioielli, la misoginia violenta e le automobili veloci. L’ostentazione di una vita che spesso non esiste nella realtà, men che meno nella vita degli “alti rappresentanti” delle cosche i quali vivono in bunker sotterranei, similmente a dei roditori, oppure tra le ostili mura di un carcere. I più “fortunati” vivono nell’ansia di poter essere catturati o uccisi. I meno fortunati si trovano invece sottoterra: sono i più ricchi del cimitero.
L’altro dato è che il giovane Glock 21, in ogni caso, completa una ricca tradizione di famiglia legata al “canto di malavita”: lo zio e il nonno componevano canzoni di propaganda mafiosa, raccontando le gesta dei boss, narrati come “ingiuste vittime dello Stato, braccate dai cattivissimi carabinieri”. Un’evoluzione dei canti di ndrangheta che ricorre al genere più (immeritatamente) popolare del momento. La trap infatti è molto seguita dai giovanissimi, dai preadolescenti che idolatrano Sfera Ebbasta, Achille Lauro, la Dark Polo Gang.
Un’ultima considerazione la merita il set del video: l’accozzaglia di palazzoni e strade sterrate appena fuori dal centro di Rosarno. Un’atmosfera di degrado e disperazione che gli avi di Bellocco hanno creato dal nulla: una cacofonia di cemento e malavita, un inno alla bruttezza. Un po’ come la musica di Glock 21.

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