Parla Alessandro Porro, veterano del soccorso in mare sulla Ocean Viking, una delle navi di soccorso civile nel Mediterraneo
Il soccorritore in mare: «Noi, chiamati “criminali” perché salviamo vite»
«La criminalizzazione della solidarietà? È anche frutto del non voler toccare le ferite dell'altro»
di Alessandro Porro*
27 Febbraio 2023
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Da sei anni passo la metà della mia vita sulle navi, in mezzo al Mediterraneo, l’altra metà sulle ambulanze. In entrambi i casi, sembra a me, faccio lo stesso identico mestiere: soccorro persone, salvo vite umane. Non perché io sia un eroe o un angelo, anzi! Ma semplicemente perché è il mio lavoro ed è la cosa giusta da fare. Così mi insegnavano da piccolo in famiglia, a scuola, in chiesa, al bar. Chi salvava la gente faceva una cosa buona. Mai e poi mai mi sarei immaginato di essere chiamato criminale, pirata, agente straniero da chi invece avrebbe il dovere di tutelare me e tutti i soccorritori. Già, perché ormai ci insultano anche sulle ambulanze, anche in pronto soccorso. Chiedete a qualunque medico, qualunque infermiere.
La Ocean Viking in assetto di operazioni (Foto Camille Martin Juan/SOS MEDITERRANEE)
La nostra società non vuol vedere le ferite degli ultimi
Spesso la nostra società tende a colpire chi mette le mani dentro le ferite, chi guarda dove non si deve guardare. Dal livello più umile a quello più “istituzionale”. Lavorare su una nave come la Ocean Viking per Sos Mediterranee, una delle Ong che fanno soccorso in mare nel Mediterraneo centrale, è diventato una guerra. Sei anni fa, quando siamo arrivati in mare con la nave Aquarius, l’opinione pubblica celebrava il nostro salvare vite, poi, a partire dal 2017, siamo diventati un problema. A suon di slogan e decreti siamo diventati taxi del mare, vice scafisti, pull factor, nemici dell’Europa. Tutto questo senza cambiare una virgola nel nostro operato, che rimane di una semplicità incredibile: salviamo vite in mare. Lo facciamo in un luogo in cui non ci sono testimoni, un mare Mediterraneo dove navi, aerei e droni militari non comunicano con noi e dove nessuno coordina i soccorsi, ormai.
Le barche, quelle che affondano cariche di uomini e donne, le troviamo con una tecnologia dei tempi di Galileo: scrutando il mare con il binocolo. E con il radar e con l’ascolto radio, tecniche comunque insufficienti in un mare così grande. Le nostre navi sono in una zona pericolosa, dove negli anni sono morte decine di migliaia di persone. C’è chi è naufragato per il mare grosso, o chi è morto per aver finito la benzina. La maggioranza si salva e arriva da sola, ma noi siamo in mare per proteggere chi è in difficoltà. Secondo il ministero dell’Interno le Ong nel loro complesso - parlo di sette, otto barche a rotazione - contribuiscono a meno del 10% degli arrivi in Italia. Nonostante i numeri, ci si accusa di invadere l’Europa, di essere motivo che spinge alle partenze.
Gli Stati devono tornare a soccorrere le persone
Da tempo mi chiedo la ragione di tanto accanimento, ma a guardare bene non ci viene contestato il gesto di salvare vite. Diamo fastidio per altro: documentando con giornalisti e reporter da tutto il mondo le contraddizioni di un Mediterraneo-frontiera, diventando testimoni dei respingimenti libici e della contraddizione di addestrare ed equipaggiare una guardia costiera libica aggressiva e non rispettosa dei diritti umani. Per i nostri detrattori ci sarebbe una ricetta facile per farci smettere: dal momento della nostra fondazione chiediamo un progetto europeo di soccorso in mare. Chiediamo che gli Stati non si tirino indietro e tornino a fare soccorso, e non respingimenti, al largo della Libia, nelle zone in cui ogni giorno (statistiche alla mano) annegano quattro o cinque persone. Nell’attesa che tale improbabile eventualità si realizzi, restiamo in mare: è il nostro dovere di medici, infermieri e soccorritori. E soprattutto di cittadini europei, desiderosi di essere d’aiuto a persone vulnerabili e in pericolo.
La criminalizzazione del soccorso? Un'altra faccia della cultura dello scarto
Dicevo della criminalizzazione dei soccorritori, in un caso figlia di una precisa scelta politica Europea e italiana, nell’altro figlia di una cecità volontaria che la nostra società si autoinfligge: nella debolezza, nella ferita dell’altro, a volte non ci vogliamo guardare. Un’altra sfaccettatura della «cultura dello scarto ». E quindi vediamo diavoli in quelli che una volta considerammo angeli. Forse non erano ne’ gli uni ne’ gli altri: solo persone che tendono una mano a chi ha bisogno.
*Soccorritore a bordo di Ocean Viking e presidente di SOS Mediterranee Italia
Foto di apertura: Flavio Gasperini/SOS MEDITERRANEE
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