Avvenire di Calabria

Oggi ricorre il 113esimo anniversario dal sisma che rase al suolo parzialmente le due città dello Stretto tra Reggio Calabria e Messina

La Chiesa reggina e il terremoto del 28 dicembre 1908

Un articolo di monsignor Antonino Denisi, decano del Capitolo metropolitano della diocesi di Reggio - Bova, ripercorre quel triste evento

di Antonino Denisi

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La Chiesa reggina e il terremoto del 28 dicembre 1908. Oggi ricorre il 113esimo anniversario dal sisma che rase al suolo parzialmente le due città dello Stretto. Un articolo di monsignor Antonino Denisi, decano del Capitolo metropolitano della diocesi di Reggio - Bova, ripercorre quel triste evento.

La Chiesa reggina e il terremoto del 28 dicembre 1908

L’Arcidiocesi di Reggio Calabria è stata coinvolta nell’emergenza del terremoto in tutta l’estensione del suo territorio. Le conseguenze negative hanno avuto ripercussioni sul clero, i religiosi, le associazioni di Azione Cattolica, i luoghi di culto, le istituzioni di formazione, gli enti e le opere di beneficenza, i beni mobili e immobili finalizzati a sostenere le iniziative culturali, l’azione apostolica, l’impegno di testimonianza e di carità. Anche la chiesa locale, come l’intera società reggina, si è ritrovata all’improvviso, in quell’alba tragica del 28 dicembre 1908, priva dei suoi luoghi di culto, del seminario, delle sedi delle confraternite, circoli e società in cui operavano clero e laicato militante; depauperata di orfanatrofio, scuole ed opere molteplici in cui prendeva corpo l’animazione socio-economica della società tramite le diversificate, anche se fragili, ramificazioni del movimento cattolico; ridotta al silenzio sul fronte dell’unico strumento culturale rappresentato dal settimanale “Fede e Civiltà“ che, oltre a stabilire un momento di compattamente del mondo cattolico, realizzava un dialettico confronto con la realtà socio-culturale cittadina, attraversata da notevoli fermenti ideologici e politici, non tutti riconducibili all’idea cristiana.

È opportuno sottolineare, inoltre, l’assenza del responsabile della diocesi, nella personalità carismatica del card. Gennaro Portanova, deceduto alla fine di aprile di quell’anno. Per lunghi mesi la chiesa Regina è rimasta come paralizzata, impotente a sviluppare qualsiasi iniziativa. La ripresa delle attività di culto e di assistenza si è avuta con lentezza e dopo un certo periodo, sotto l’influsso di agenti esterni, piuttosto pochi in verità, che inviati o sollecitati dal papa Pio X, hanno lentamente risvegliato le energie fiaccate e rimesso in movimento la dinamica pastorale, con l’apporto di sussidi finanziari che hanno contribuito a mettere in piedi strutture provvisorie, ma sufficienti per riavviare la vita delle comunità. Il clero, in prima linea, era uscito decimato dal disastro. Rimasero sotto le materie trenta sacerdoti e due chierici, tra cui il provicario e decano del capitolo, can. Cristoforo Maria Assumma, il penitenziere, il prevosto del duomo e mons. Rocco Cotroneo, storico insigne e direttore della “Rivista Storica Calabrese “, assieme a molti parroci. Altri morirono nei mesi successivi in seguito alle ferite riportate, o si dispersero per tutta l’Italia in cerca di soccorso, insieme ai 160 chierici del seminario arcivescovile, molti dei quali furono accolti nei seminari di Roma, Napoli, Anagni, Massa Carrara e di altre città, per completare gli studi teologici e la preparazione al sacerdozio.


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L’analisi dei vuoti apertisi nelle file dei quadri dirigenti della chiesa reggina si deve estendere ai religiosi, alle religiose ed ai responsabili delle associazioni cattoliche, per rendersi conto dello stato di inerzia in cui essa è precipitata. Così come vanno analizzate le condizioni di prostrazione fisica e psichica, la lotta per la sopravvivenza, l’esposizione alle intemperie ed ai disagi, prima all’aperto e poi in tende e baracche, a cui la popolazione si dovette sobbarcare e che riportarono la vita della gente ad una condizione quasi primitiva dell’esistenza, che non favoriva certo l’impegno ed il prodigarsi per gli altri, come le condizioni di emergenza avrebbero richiesto. Perciò l’abbattimento e il disfattismo rischiavano di insinuarsi anche all’interno della chiesa e fra le guide pastorali, innescando un meccanismo opposto alla ripresa.

La drammaticità dell’evento viene ricordata ancora, a distanza di molti mesi, dal can. Salvatore De Lorenzo che scrive due punti “in uno dei tristi giorni del gennaio, quando tuttora annientati dall’immanità della sventura, ci giravamo raminghi per le macerie, chiedenti e distribuenti qualche soccorso agli affamati e nudi nostri concittadini“. Una descrizione realista, a dir poco, che si completa con quella riservata al clero, presentato “oppresso e piangente, intonse le chiome e la barba, ricoperto da abiti non suoi“. La condizione allucinante della massa famelica e svanita è quella che maggiormente colpisce la fantasia di quanti riuscivano a riflettere e pensare agli altri. Così il parroco di S. Giorgio de Gulpheriis, Rocco M. Zagari, annotava nei libri parrocchiali del 1909: “superstiti errarunt fatui et nudi per vias et plates pluribus diebus, perferentes famen et omnes angustias”.

Il che era tristemente vero anche per lui, che si potrebbe pensare disponesse di più favorevole accoglienza presso i preposti ai soccorsi. ”Ego, cum veteribus soro-ribus, sub tentorio, more animalium, elanguescere debui in platea vulgo Piazza d’Italia per duos menses; sed postea, die secunda fe-bruarii 1909 habui receptum in domuscula lignea apud viam Reggio Campi… ubi milites genii… construxerunt mihi parvum sacel-lum et potui tandem offerre sacrum sacrificium, quod desideravi a die immanis flagelli”.
Quando il parroco Zagari scriveva queste parole era evidentemente ancora sotto shock. Da esse si ricava tutto il disagio di persone che non erano in grado assolutamente di svolgere la loro specifica missione, e non soltanto per mancanza di ambienti adatti. Un grido di denunzia molto più angosciante troviamo sul giornale diocesano per lo stato di abbandono dei paesi della provincia. “La vita in baracche è quasi insopportabile… ciò che si avvera in città, si nota maggiormente nei paesi, specie in quelli che per
la mancanza di viabilità e per la negligenza delle autorità rimasero completamente abbandonate“ .

I parroci fanno quello che possono, Ma la loro opera non basta. A Cerasi troviamo una di queste situazioni limite emblematiche, in cui il sacerdote si fa portavoce e riferimento di quanti, con la casa ed i beni, hanno perso anche la fiducia nelle pubbliche autorità. “Qui non è arrivata anima viva fra tanti comitati che a larghe mani profusero il bene altrove… solo una persona si è vista lenire i dolori ai poveri disgraziati e asciugare le lagrime del confronto di padre, di fratello, di amico carissimo, e fu il giovane parroco don Carmelo Cormaci. Fu lui che organizzo subito il lavoro di salvataggio che impedì disordini nella distribuzione di viveri elargiti dai soldati e ottenne sussidi dal rev. mo vicario capitolare e indumenti dal comitato inglese residente in Catona. Fu a sue spese che sorse la baracca-chiesa dove si sono svolte le funzioni della settimana santa“ . Questa azione di soccorso materiale solo occasionalmente viene ricordata nei testi posteriori. Rifacendo la storia della presenza a Reggio di padri Francescani di Sbarre, un breve inciso Annota: “I frati, per più giorni ripararono all’aperto e furono larghi in distribuzione, a quanti a loro accorrevano, sia i cibi di cui potevano disporre, come le loro stesse suppellettili; anzi alcuni chierici e qualche padre si recarono in altro convento e portarono quello che hanno potuto avere e lo distribuirono parimenti ai bisognosi“.


PER APPROFONDIRE: Scoperta nello Stretto la faglia del terremoto del 1908


Nell’agosto del 1909 un articolo di colore su “Reggio nuova“ ricorda come nel gennaio dello stesso anno un gruppo di ragazze dell’Istituto S. Gaetano, guidato da sr. Crocifissa Cosacchia, “la suora forte e pia che non perdette mai la fede nell’avvenire, mentre si succedevano nuove scosse e nuovi crolli, e le piogge ininterrotte allagavano quel che rimaneva dell’Istituto“, modulava un canto religioso. E l’anonimo corsivista commenta: “quel viva cadenzato in mezzo al furore della terra e del ciclo, diretto al moderatore degli elementi, al datore delle gioie e del dolore, era anch’esso espressione di fortezza e di fede. Era il grido confortante della risurrezione”, simbolo di incrollabili speranze e certezze. È questo sostegno morale il contributo più significativo che la chiesa reggina ha dato alla ricostruzione materiale e dalla risurrezione spirituale della città, con le risorse interiori della fede, della preghiera, dei sacramenti e con la ripresa della vita religiosa, dopo il comprensibile sbandamento dei primi mesi succeduti al flagello. A tre mesi dalla tragedia, per volere di Pio X, viene fondato il settimanale diocesano che prende il posto di “Fede e Civiltà”, travolta insieme alla tipografia Morello che la stampa va.

Significativamente il giornale prende il nome “Reggio Nuova”, perché intende accompagnare il cammino della rinascita, concorrendo “con migliori tecniche, freschezza di materiale e innovazione di veste” ad una più larga diffusione . Formulando propositi e programma l’editoriale lancia Il grido di incoraggiamento e di speranza, ricordando che perché Reggio risorga dalle sue rovine “è necessaria l’opera cosciente, concorde, indefessa dei reggini superstiti dall’orrendo disastro“. Il giornale si impegna a battersi “pel risorgimento materiale, economico e morale della nostra città“.


* Dall'archivio Anassilaos

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