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Vito Teti e Francesco Biacca ci spiegano come, secondo loro, è ancora possibile restare in Calabria: per farlo occorre valorizzare l'identità. Un aspetto peculiare, spesso demonizzato, è lo stile di vita lento che, però, valorizza relazioni e comunità: un plus su cui fondare il processo di sviluppo sostenibile dei territori.
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«Sia partire che restare comportano fatica, sofferenza e lacerazione. Il vero dramma è un altro: si è davvero liberi di restare? E chi parte lo fa altrettanto liberamente?». Un interrogativo che ribalta l’unico granitico convincimento dell’intervistatore sul tema tanto dibattuto, quanto incompreso. Dall’altro capo della cornetta c’è Vito Teti, antropologo e accademico calabrese.
Uno dei più lungimiranti e lucidi intellettuali meridionalisti del nostro tempo. Le sue parole spostano l’orizzonte della riflessione: il diritto a partire o restare. E su questo binario proviamo a tracciare la traiettoria del nostro confronto.
Partire o restare. È davvero una dicotomia insuperabile?
La Calabria è terra di migrazione. Lo testimonia la sua storia: dai primi Novecento al “boom economico” c’è stata una vera e proprio erosione della società tradizionale in quella che è stata definita una «fuga di massa». Va, però, rivista la narrativa che ha descritto questo fenomeno.
In che modo?
Si è dimenticato o, peggio ancora, si è volontariamente omesso che di fronte alle migliaia di persone che partivano c’erano migliaia di persone che restavano. Come dimenticare l’attesa operosa delle donne che, spesso da sole coi mariti lontani, sono state le protagoniste principali dei mutamenti storici dello scorso secolo. Il loro restare non era apatico, tutt’altro. Per questo motivo, a mio avviso, “restare” e “partire” sono due facce della stessa medaglia.
Per venire all’oggi possiamo dedurre che partire e restare sia un fatto ineluttabile?
Quando io parlo di “restanza” definisco un atteggiamento moderno. Parliamo di giovani, su cui mi soffermerei dando ai numeri la loro importanza relativa, che hanno scelto di restare nei loro paesi per approntare un miglioramento. Queste storie rafforzano un mio convincimento: difendere il diritto a restare. Ma oggi siamo davvero liberi di farlo? Si è liberi o costretti a partire?
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Forse per restare o, addirittura, per tornare (si pensi ai tantissimi fuorisede «alla finestra») sarebbe opportuno rileggere la storia dei nostri borghi oggi divenuti “fantasma”. Lei cosa ne pensa?
Una civiltà quando muore va osservata come un fenomeno passato. Questo, però, non deve distrarci da un altro esercizio che, invece, sarebbe fondamentale: abbiamo il dovere di custodire le tracce di quella civiltà per trarre gli insegnamenti da quell’esperienza. Arrivo al concreto: se è vero che è impossibile tornare all’organizzazione socio-economica di un «piccolo mondo antico» altresì possiamo studiare con occhi nuovi tutti quei luoghi che per troppo tempo sono stati stigmatizzati come gli «spazi dell’arretratezza».
Eppure da quei luoghi sono “scappati” quasi tutti.
Quella criminalizzazione dei luoghi era ideologica e funzionale ai ceti dominanti del Nord che aveva bisogno di manodopera senza curarsi in alcun modo dei danni che avrebbe comportato lo svuotamento di quei territori.
Sistema economico a parte, andare alle radici della nostra identità a cosa può portare?
Porta già frutto. Sono le storie che accennavo in precedenza dei giovani che - con un’operazione da “ritorno al futuro” - hanno acquisito la giusta consapevolezza sulla terra, sulle risorse e sulle ricchezze paesaggistiche e naturali della Calabria. E ancora: si pensi a quanti stanno investendo sulla valorizzazione dell’artigianato o all’agroalimentare.
In fondo la “restanza” è proprio questo: ridare dignità ai nostri territori.
Questa è la grande occasione di rigenerazione: c’è una grande tradizione di cui andare fieri. Il rapporto col passato che è stato reciso brutalmente può essere recuperato attraverso un’opera di riscatto e restituzione alla collettività.
Leggendo le parole di Vito Teti sembrerebbe possibile tornare in Calabria e vederlo come investimento. Utopia? No per Francesco Biacca che con la sua Evermind rappresenta una novità interessante nel panorama imprenditoriale calabrese. A differenziarlo è il cambio di paradigma che coniuga lentezza e sostenibilità.
Finite le scuole superiori, anche per lei è scattata la domanda fatidica: partire o restare?
Sono figlio di una generazione che si è dovuta mettere in viaggio per necessità e non per scelta. Alla fine degli anni ’90 volevo approfondire gli studi in Ingegneria informatica e lo feci presso l’Università di Bologna. Ho passato 15 anni della mia vita tra la città felsinea e Roma cercando sempre di avere un approccio aperto verso le comunità e le persone che ho incrociato lungo questo cammino.
Un cammino fatto di studi e non solo.
Ho lavorato per banche, società di consulenza ed enti pubblici. Posso dire che ero riuscito a «diventare qualcuno», grande mantra per la mia generazione. Eppure tutto questo non mi donava una felicità piena…
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Cosa le mancava per essere felice?
Mi mancava un tempo per me che vuol dire potersi dedicare alla mia famiglia e alle mie passioni. E poi mi mancavano i colori e il mare della Calabria. Scegliemmo di tornare a Nicotera, in provincia di Catanzaro, per un motivo preciso: volevamo riconnetterci con lo spirito autentico dell’essere comunità da queste parti.
Nel suo destino c’era nuovamente la Calabria. Oggi è felice della scelta che ha fatto?
Sapevo fin dal primo giorno in cui sono partito che prima o poi sarei tornato in Calabria. Ho scelto di investire qui perché è fin troppo facile lamentarsi che non c’è niente e delegare tutto agli altri. Perciò il primo grande investimento è stato quello su un nuovo punto di vista da condividere con chi avrebbe incrociato il nostro cammino.
La stessa gente con cui condivide il percorso di Evermind?
Evermind, nata nel 2011, è oggi una Società benefit B Corp, l’unica in Calabria. Questo è un punto di inizio molto importante per noi perché concretizza la visione originaria della nostra azienda. Cosa cambiamo? Con questa evoluzione vogliamo proteggere la nostra cultura aziendale mettendo sullo stesso piano tanto il raggiungimento dei profitti quanto la creazione di valori.
Cosa vuol dire?
Il nostro modello organizzativo ibrido mette al centro la grande ricchezza di cui ciascuno di noi è portatore, cioè il nostro tempo. Per questo i professionisti che operano in Evermind sono liberi di gestirsi in completa autonomia anche rispetto alla scelta dei luoghi dove vivere e lavorare. L’orizzonte temporale dell’azienda è il benessere del singolo che di conseguenza avrà un impatto positivo anche sul benessere collettivo. Per farlo fondiamo il nostro agire su tre parole-chiave: trasparenza, fiducia e responsabilità.
Lo sviluppo della Calabria passa da esperienze come la sua? Ci salverà lo “smart working”?
Il futuro è roseo. C’è davvero tanto su cui puntare. Più che produrre di più, bisognerebbe produrre meglio. In un territorio caratterizzato dalla lentezza se riusciamo a vedere proprio la lentezza come un valore aggiunto probabilmente potremmo avere una visione più consapevole della strada che si potrebbe percorrere.
Monsignor Fortunato Morrone, arcivescovo metropolita di Reggio Calabria - Bova e presidente della Conferenza episcopale calabra, si è speso a più riprese sul tema del «restare o partire».
«Facciamo un patto? Perché non proviamo insieme a non lasciare questa terra, Reggio, nelle mani dei figli delle tenebre? Perché devono godersi solo loro tutta questa bellezza?». Ha detto in uno dei suoi primi incontri coi giovani dell’Azione cattolica diocesana di Reggio-Bova.
Chissà se monsignor Morrone nelle sue parole interpreta il concetto antropologico della “restanza”. Di certo e che il suo «non lasciare» non e soltanto riferito a un movimento “geografico”. Ma e questione di cuore: come specifica nel corso del discorso, infatti, «potrete anche essere dall’altra parte del mondo, ma non abbandonate mai la vostra terra».
Un appello che il presule rinnova a ogni incontro coi suoi giovani, un monito da cui ripartire.
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