Il rapporto tra sociologia e pastorale ordinaria della Chiesa. Come la prima, considerata scienza autonoma, può venire incontro alla seconda? Ne abbiamo parlato - in questa intervista in esclusiva rilasciata ad Avvenire di Calabria - con Massimiliano Padula, sociologo dei processi culturali e comunicativi e docente di Scienze della comunicazione sociale presso l’Istituto pastorale “Redemptor Hominis” della Pontificia Università Lateranense.
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La sociologia può aiutare la pastorale ordinaria della Chiesa?
Per rispondere a questa domanda, credo sia necessario esplorare – seppur brevemente – il legame tra teologia e sociologia. La disciplina sociologica nasce come proposta concettuale di superamento delle visioni precedenti (o degli “stadi” per dirla alla Auguste Comte) che indicavano nella prospettiva teologica prima – e in quella metafisica poi – le vie esclusive che l’uomo poteva percorrere per giungere alla conoscenza. Potremmo definirla una sorta di “filosofia laica” che, chiaramente considera la religione una semplice credenza. Questo è uno dei presupposti dell’iniziale inimicizia tra sociologia e pastorale cattolica che però, con il passare del tempo, tende ad attenuarsi. Germogliano, infatti, semi di interesse reciproco, soprattutto alla luce dell’eredità del Concilio Vaticano II, secondo cui l’azione della Chiesa è nel mondo contemporaneo, «nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive» ( Gaudium et spes, 2). Con l’evento conciliare, si consolida e si istituzionalizza, quindi, un rapporto di interdipendenza tra pastorale (o teologia pastorale) e sociologia. L’una guarda alla società in modo onnicomprensivo, l’altra la aiuta a indirizzare lo sguardo e a tracciare percorsi di riflessione e di analisi.
Può farci degli esempi di “buone prassi” di cui è a conoscenza?
Dividerei le buone prassi in due macro categorie. La prima è quella “intellettuale”, che trova riscontro nella presenza della sociologia in percorsi accademici di teologia pratica. A tal proposito io insegno proprio in un Istituto pastorale nel quale la sociologia è un insegnamento caratterizzante. Per un pastore, infatti, conoscere la storia sociale di popoli e generazioni, apprendere concetti come mutamento, stratificazione, conflitto, potere, istituzioni, norme, valori, significa vivere un ministero aperto, capace di “annusare” il circostante, accompagnarne i cambiamenti e fronteggiarne le sfide.
La seconda categoria è quella propriamente “pastorale”; anche grazie all’analisi sociale l’azione della Chiesa si rinnova (e con essa la teologia tutta), perché fa proprie letture oggettive della storia e del mondo. La Dottrina sociale della Chiesa è il modello principale di questa rimodulazione di senso pastorale, così come lo sono figure straordinarie di “pastori sociali” che, nell’ultimo secolo, hanno inciso profondamente nelle realtà in cui hanno operato. Tra questi mi piace ricordare Lorenzo Milani (in relazione ai processi educativi), Tonino Bello (per la promozione della pace) o i tanti preti impegnati contro la criminalità che hanno pagato con la vita il loro impegno sociale come Pino Puglisi, Peppe Diana, Oscar Romero.
Al contrario…può evidenziarci quali sono – secondo lei – alcuni errori che vengono commessi nella pastorale ordinaria, proprio perché non si tiene conto delle indicazioni e dei suggerimenti della sociologia?
Un primo errore fa riferimento a quella che definisco “una pastorale strabica”, perché, pur affannandosi a fare, rischia di perdere di vista il suo senso autentico: essere azione incarnata in un contesto socio-culturale transitorio. Non a caso il pastoralista Sergio Lanza indicava “nell’attenzione al milieu” l’elemento più importante della pastorale d’insieme. L’ambiente sociale – inteso nella sua complessità di legami, situazioni, strutture – va percepito e vissuto in tutta la sua forza di condizionamento. Se una parrocchia si ostina oggi a vivere l’illusione di un ambiente omogeneo a cui rivolgersi indistintamente, senza interiorizzare le differenze, le distanze, le storture, fallisce, perché si irrigidisce, si ripiega su stessa, si rassegna. E rischia di implodere fino a perdere il suo essere riferimento e guida.
Può dare alcuni consigli agli operatori pastorali e ai sacerdoti per integrare al meglio le conoscenze sociologiche nella prassi pastorale di una parrocchia?
Leggendo il Magistero di papa Francesco si percepisce una costante volontà a sottolineare l’importanza di tutto il contesto. Questa indicazione è quanto mai attuale in un’epoca come quella contemporanea caratterizzata – scriveva il compianto sociologo Carlo Morgandini – «dall’apertura di nuovi spazi significativi per l’individuo e le collettività, dal moltiplicarsi delle reti di relazioni sociali e nelle quale le situazioni di contingenza sono diventate elemento dominante e determinante ». La contingenza diventa allora una variabile costitutiva del legame tra pastoralità e società. Le comunità ecclesiali (i parroci, i sacerdoti e i laici impegnati) dovranno (iniziare a) (re)impostare azioni capaci di capire le nuove antropologie e tradurle in azioni pastorali efficaci. Se volessimo fare degli esempi concreti, significa (ri)adattare tempi e spazi della pastorale ordinaria alla riconfigurazione dei tempi sociali (lavoro, scuola); oppure comprendere che la famiglia è investita da fenomeni condizionanti come la denatalità o le difficoltà economiche. O ancora intercettare processi come il multiculturalismo, la diminuzione della nuzialità, la mancanza di lavoro, le nuove povertà o esclusioni. E farlo anche grazie ad una sensibilità sociologica che spesso ciascuno di noi possiede non soltanto per averla studiata sui manuali, ma solo perché è un uomo o una donna che vive e agisce nell’oggi.
Se lei fosse un vescovo…in che modo integrerebbe la Sociologia nei processi di discernimento diocesani?
Ci sono già molte prassi “sociologiche” nella pastorale ordinaria. Basti pensare ai rapporti che alcune Caritas diocesane redigono annualmente. Oppure le indagini su un ambito specifico della pastorale come la catechesi o il tempo libero. In un certo senso anche il processo sinodale in corso ha una caratterizzazione sociologica, perché punta su metodologie specifiche di ascolto che possono avvalersi di strumenti della ricerca sociale come il questionario, l’intervista o il focus group. Ma ciò che mi permetterei sommessamente di suggerire ai vescovi è includere nella formazione permanente del clero momenti di riflessione che possano avvalersi anche di competenze sociologiche e trattare temi urgenti della contemporaneità come la secolarizzazione, il digitale, la questione ambientale, la condizione giovanile, la terza età. Più un prete ha percezione di ciò che è la vita sociale, più vivrà il suo ministero in modo integrato e integrale. Infine (ma questo probabilmente resterà per molto tempo un sogno) mi piacerebbe che ogni diocesi strutturasse un proprio centro studi e ricerche socio- pastorale con il quale realizzare indagini finalizzate alla conoscenza, alla promozione e alla crescita della propria comunità ecclesiale.
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