Avvenire di Calabria

Il 21 marzo si celebra la Giornata della memoria e dell'impegno per le vittime innocenti delle mafie: ma a che punto è la lotta alla mentalità mafiosa?

Vittime di mafia, la denuncia di Stefania: «La gente non sta dalla nostra parte»

Da Stefania Gurnari che racconta il "muro di gomma" dopo il ferimento del figlio all'impegno costante di don Pino Demasi nella Piana di Gioia Tauro

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Il 21 marzo si celebra la Giornata della memoria e dell'impegno per le vittime innocenti di tutte le mafie: leggi le testimonianze. Da Stefania Gurnari che racconta il "muro di gomma" dopo il ferimento del figlio all'impegno costante di don Pino Demasi nella Piana di Gioia Tauro.

🎧 Ascolta il podcast 👇

Memoria e impegno per le vittime innocenti di tutte le mafie

di Federico Minniti - Era il 6 giugno 2008. Un proiettile colpisce alla testa il piccolo Antonino Laganà, 3 anni appena. Tutto accade in un’affollatissima piazza della Madonna di Porto Salvo durante la recita di fine anno dell’asilo del borgo grecanico, “feudo” di ‘ndrangheta della famiglia Iamonte. Ne abbiamo parlato con la mamma di Antonino, Stefania Gurnari. La ‘ndrangheta non chiede il permesso di entrare nella vita delle persone. È successo a lei.

Ci può raccontare la sua esperienza?

Ci siamo ritrovati catapultati in un mondo fatto di violenza, tipico della ‘ndrangheta, per caso. Eravamo lì per la recita di fine anno del primo anno di asilo di mio figlio Antonino: una momento gioioso di festa.

Accanto a noi c’era il “bersaglio” dell’attentato: un condannato a morte la cui esecuzione era stato deciso si sarebbe tenuta in pubblica piazza. Un messaggio inequivocabile: chi sbaglia deve essere punito davanti a tutti.

Così ragiona la ‘ndrangheta. Noi siamo stati solo colpevoli di trovarci in quel posto a tal punto da rischiare la vita di mio figlio: solo dopo diversi mesi in ospedale abbiamo iniziato a vedere un barlume di luce.

La violenza mafiosa non guarda in faccia nessuno: non è vero che donne e bambini non si toccano. La verità è che la ‘ndrangheta non ha onore.


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Da allora a oggi: come giudica la risposta della società civile rispetto alla vicenda che ha coinvolto suo figlio?

La società civile non esiste perché davanti a quanto è successo a mio figlio in tanti si sono prodigati a dirmi di «lasciare stare», «ma chi te la fa fare» a metterti contro le famiglie di ‘ndrangheta.

Non c’è stata, quindi, nessuna presa di posizione; ho avuto solidarietà dai miei compaesani, sì, ma fine a sé stessa. Quando chiedevamo ai presenti di raccontarci cosa avessero visto, nessuno ha detto una parola.

Melito Porto Salvo ha preferito comportarsi come se in quella piazza non fosse successo niente. Per loro «farsi i fatti propri» sia una risposta equa: ma è davvero così? Perché non scegliamo di fare la nostra parte?

Sete di giustizia e perdono cristiano. Una sua riflessione dopo quello che le è accaduto.

Subito ho chiesto di potermi costituire come parte civile al processo. Ho sempre cercato di chiedere verità e giustizia. Quel giorno al posto di mio figlio poteva esserci qualsiasi bambino presente.

L’ho fatto anche per tutti i presenti che poi mi hanno voltato le spalle. Nel corso di questi anni, non mi nascondo, ho sempre meditato sul perdono: ho chiesto al Signore di darmi la forza di perdonare, cosa che ancora non è arrivata.

Probabilmente influisce il mio essere madre: per una mamma veder soffrire il proprio figlio è stato molto difficile. Aggiungo un altro elemento: se ancora il perdono non è arrivato, la fede non mi ha mai abbandonata. Anzi: per molto tempo è stata la roccia a cui mi sono aggrappata.

Oggi coordina per Libera, l’area che si occupa delle vittime di mafia: in cosa consiste il suo impegno e cosa si sente di dire a chi sta vivendo il tempo della solitudine in questo contesto?

Raccontare le storie delle vittime innocenti delle mafie attraverso le voci dei loro familiari. Sensibilizzare il 21 marzo non solo in quanto giornata nazionale, ma come percorso nelle scuole. Educare le giovani generazioni che chi spara e uccide degli innocenti non può essere mai giustificato. 


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«Restare per cambiare la Calabria», parola di don Pino Demasi

di Pino Demasi * -

Una testimonianza sull’impegno ecclesiale contro le mafie. La faccio nell’umiltà e nella coscienza della mia debolezza, ma anche con tutta la determinazione e la forza di cui Dio giorno dopo giorno mi fa grazia.

E la faccio anche con gratitudine a quelle tante persone (ricordo in modo particolare tre: don Italo Calabrò ed i Vescovi Papa e Bux) che mi hanno insegnato a fare il prete uscendo dalle sacrestie, ad abitare il territorio in cui vivo assumendone le sfide, ad amare la gente soprattutto gli ultimi, a contrastare la prepotenza mafiosa con la forza della denuncia e soprattutto con la testimonianza di una vita buona che non ha paura di andare controcorrente.

Convinto sin ragazzo che vivere in Calabria non è una disgrazia, ma una vocazione, ho vissuto da sempre il mio sacerdozio anche come risposta ad una chiamata a vivere in questa terra per trasformare le ferite di dolore in feritoie di speranza, di quella speranza, che come diceva Sant’Agostino, è formata di indignazione per lo status quo e di coraggio per cambiarlo.

Cambiare per restare e restare per cambiare. È stato questo lo slogan – programma di vita che ho cercato di testimoniare soprattutto nell’accompagnare in questi anni diverse generazioni di giovani aiutandoli a rinunciare, nel nome de Vangelo, al fascino del potere mafioso, al senso aberrante dell’onore, ai facili guadagni e a rimanere in Calabria per impegnarsi, attraverso varie esperienze, ad essere protagonisti del cambiamento.

Restare dunque in questa terra di frontiera per ricostruire ciò che l’illegalità e l’ingiustizia rischiano di distruggerti dentro, dopo averlo distrutto fuori di te. In questa logica come sacerdote e come parroco ho cercato di accompagnare sempre l’impegno continuo della denuncia del fenomeno mafioso ad una sempre più incisiva azione pastorale volta alla riaffermazione dei principi evangelici nella loro dimensione umana e sociale.

Ma l’annuncio e la denuncia hanno sempre bisogno di segni concreti, visibili, chiari e forti nella testimonianza. Ed i segni della testimonianza, grazie a Dio, non sono mancati: da una parrocchia aperta a tutti, a partire dall’abitazione del parroco, condivisa nel corso degli anni da giovani e meno giovani che stentano a camminare, alla purificazione della pietà popolare estromettendo i mafiosi dall’organizzazione delle feste e delle processioni.

Continuo è stato poi lo sforzo di costruire una Chiesa di strada con la promozione di esperienze di associazionismo, di volontariato e di reti di solidarietà per aiutare la gente a non sentirsi vittime della rassegnazione, della violenza e delle varie forma di illegalità. Tra i tanti segni concreti ricordo: l’Associazione ed il Centro di Ascolto Il Samaritano; l’Associazione Coloriamo l’Arcobaleno per i ragazzi diversamente abili; l’Estate Ragazzi ed sostegno scolastico per i minori a rischio; l’obiezione di coscienza al servizio militare prima ed il servizio civile poi; la contaminazione concreta con Libera; la cooperativa Valle del Marro, prima cooperativa in Calabria a lavorare sui terreni confiscati; il centro polifunzionale Padre Pino Puglisi in un immobile confiscato e assegnato alla Parrocchia.

Ultima nata, la Seles, la scuola etica e libera di educazione allo sport. Non minore importanza è stata data in questi anni alla vicinanza e all’accompagnamento dei familiari delle vittime di mafia e nello stesso tempo alla cura delle famiglie e dei figli dei mafiosi.

L’elenco potrebbe continuare ma sono segni concreti di testimonianza non tanto mia, ma di un “noi “collettivo. Storie di donne e di uomini, i quali, convinti sempre più che in contesti difficili come il nostro non si può essere cristiani autentici senza aver fame e sete di giustizia, continuano a spendersi con coraggio e passione per rendere evangelicamente credibile la Chiesa e vivibile il territorio.

* Vicario generale della diocesi di Oppido Mamertina - Palmi e referenti di Libera sulla Piana di Gioia Tauro


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La realtà delle attività produttive in Calabria

di Claudio Aloisio * - I l 21 marzo è la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie. Purtroppo dobbiamo constatare che dopo decenni di lotta senza quartiere da parte dello Stato nei confronti di questo cancro che pervade la nostra società, ancora le mafie non solo esistono ma prosperano.

Si pensi che solo la Ndrangheta, quella che viene considerata una delle più potenti organizzazioni criminali al mondo, si stima abbia un giro d’affari di decine di miliardi di euro l’anno.

Certo, l’impegno di magistrati e forze dell’ordine ha prodotto risultati straordinari ma, purtroppo, non tali da estirpare definitivamente questa malapianta che continua a sopravvivere nonostante tutto.

Al netto degli avvenimenti più eclatanti, i morti ammazzati, gli attentati, la faccia violenta e sanguinaria di queste organizzazioni, i danni che la società civile subisce giornalmente, anche dalla sola presenza delle mafie, sono enormi, sicuramente poco evidenti ma ugualmente devastanti.

Tante imprese, non solo del Sud ormai, devono sottostare a un sistema subdolo che sempre più spesso dimostra di essersi ormai affrancato dal classico modello del pizzo. Oggi le mafie si muovono in maniera più viscida e ambigua.

Da una parte hanno bisogno di avere un ferreo controllo del territorio per tutelare i loro affari e dall’altra la necessità di reinvestire gli enormi proventi generati dalle attività illecite.

Ecco quindi che diversi imprenditori, anche i più piccoli a volte, subiscono vessazioni che li costringono a doversi piegare, non alla classica mazzetta per essere “protetti”, ma ad altre forme indirette e forse anche più pericolose di ricatto: assumere delle persone “indicate”, approvvigionarsi da determinati fornitori, fare lavori di costruzione o ristrutturazione con specifiche imprese, chiedere il “permesso” per aprire la propria attività in un determinato luogo, agevolare fuori da ogni logica di mercato gli acquisti di alcuni personaggi.

Questo nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, spinti dal bisogno, accettare denaro in prestito con interessi usurai che, quasi sempre, li porta a indebitarsi in modo da cedere la propria azienda o, ancora, accettare “soci occulti” che divengono i veri “dominus” dell’attività.

E così le mafie ottengono, senza spargimento di sangue o attentati intimidatori, gli obiettivi che si prefiggono: veder riconosciuta la loro autorità, perpetuare una fittizia pax di facciata e reinvestire “lavandoli” i propri guadagni, inquinando l’economia pulita contribuendo, in tal modo, a far regredire lo sviluppo dei territori.

Il tutto, alimentato da una mentalità ancora radicata che spesso tende a riprodurre inconsciamente alcune parti della cultura mafiosa nei comportamenti quotidiani, quelli più banali ma, proprio per questo, più emblematici: la ricerca del favore, il disinteresse verso i beni e la res pubblica, la tendenza a “girarsi dall’altra parte”.In tale maniera una piccola, insignificante minoranza, continua a condizionare pesantemente intere comunità oneste e operose che si ritrovano a fare i conti anche con una nomea immeritata che, in alcuni luoghi, di fatto, rende tutti colpevoli sino a prova contraria.

Questa è l’altra faccia della medaglia nella lotta alle mafie: i danni collaterali che lasciano sul terreno vittime incolpevoli alle quali norme ovviamente utili ma, per loro natura non garantiste, producono danni spesso irreversibili. Penso alle interdittive, alle confische, ai sequestri operati ad aziende che, alla fine di un percorso processuale, risultano estranee alle accuse contestate ma ormai rovinate da una gestione inefficace o dall’impossibilità di poter operare.

Tutto ciò concorre anch’esso a bloccare uno sviluppo sano dei territori colpiti da questa piaga maledetta la qual cosa, aggiunge danno a danno dato che è proprio lo sviluppo economico e sociale l’arma più potente a nostra disposizione per combattere e vincere questa guerra.

Ecco perché credo si debba ancora lavorare per migliorare questi strumenti rendendoli più efficaci e al contempo meno invasivi in caso di errori. «La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine». Sono le parole di Giovanni Falcone, parole che dovremmo sempre tenere a mente perché descrivono in modo semplice e potente la verità: le mafie alla fine perderanno.

Per arrivare a questo epilogo, però, serve l’impegno di tutti. Non si tratta di dover fare gli eroi ma, molto più banalmente, di ricordarci sempre ciò che siamo: donne e uomini che vogliono un futuro migliore per la propria terra e i propri figli.

* Presidente Confesercenti Reggio Calabria

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