Una stele eretta nel luogo dell’assassinio tiene viva la memoria del giovane magistrato e nello stesso tempo rilancia la testimonianza di ''un uomo normale'': entrambi credibili.
Paolo Bustaffa
9 Settembre 2020
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La cronaca ripropone puntualmente le ricorrenze delle morti per mani mafiose. La stessa cronaca aggiorna, sempre puntualmente, sulle risposte delle forze dell’ordine all’illegalità e alla criminalità. Il tema della lotta tra il bene e il male è sempre in prima pagina. La domanda sulla storia come maestra di vita non perde d’attualità. Tra le ricorrenze c’è, ormai prossima, quella dell’assassinio di Rosario Angelo Livatino, 38 anni, magistrato ad Agrigento. Era il 21 settembre 1990, si stava recando al lavoro e con spietatezza venne assassinato da quattro uomini della Stidda, una delle molte sigle mafiose. Conclusa la fase diocesana continua il processo per la sua beatificazione. “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili” aveva scritto il giovane giudice che si era formato nell’Azione cattolica. La data del 21 settembre richiama un altro laico che fu testimone oculare di quell’assassinio. Si chiamava Pietro Nava. Viaggiava in auto sullo stesso tratto di autostrada, vide la scena dell’inseguimento a piedi e sentì gli spari. Non si lasciò intimidire dagli assassini, raccontò quello che aveva visto consentendo il loro arresto e quello dei mandanti. C’è un legame tra i due uomini. Il giovane giudice venne ucciso perché non aveva voltato la testa davanti alla illegalità e alla criminalità, uno “sconosciuto” pagò un altissimo prezzo personale, familiare e professionale perché non aveva voltato la testa davanti alla minaccia di morte. Livatino moriva e il suo amore per la verità e la giustizia prendeva posto nella coscienza di uno “sconosciuto”. Una stele eretta nel luogo dell’assassinio tiene viva la memoria del giovane magistrato e nello stesso tempo rilancia la testimonianza di “un uomo normale”: entrambi credibili. Pietro Nava non conosceva il giudice e neppure il suo pensiero ma c’erano ideali e valori che univano misteriosamente un uomo del Sud e un uomo del Nord. Quest’ultimo in un’intervista aveva detto “Io non sono un coraggioso, sono un uomo normale, che ha fatto una cosa normale. E che rifarei domattina”. Queste parole come, anche recentemente, quelle di altri hanno consentito e consentono alla speranza di abitare ancora una società attraversata da paure, da silenzi ambigui, da giramenti di testa. Sì, è vero, lo Stato e le sue istituzioni non devono lasciare soli quanti lottano contro l’illegalità e la criminalità ma è soprattutto il popolo che deve tenere gli occhi aperti e alzare la voce di fronte al male. Sono una coscienza personale e una coscienza popolare che non devono lasciar dissolvere la memoria nelle celebrazioni e nelle pagine dei giornali.
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