Avvenire di Calabria

Investire sui migranti

Costruire muri non aiuta nessuno: né chi cerca una vita migliore, né chi abita continenti che non si rinnovano

Andrea Casavecchia

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Non si fermeranno all’intimazione di un semplice: Alt! Il fenomeno migratorio ha una portata eccezionale in questa epoca storica. Si combinano due fattori la crescita demografica nei Paesi in via di sviluppo e il proliferare delle zone di guerra. Ci sono due spinte per abbandonare la propria terra: la ricerca del lavoro, la paura dei conflitti.
Appare illusorio pensare che alzare dei muri sia una soluzione possibile, come propone il neo presidente Usa Donald Trump. L’Unhcr, centro dell’Onu che si occupa dei rifugiati, segnala che il numero di persone in ricerca di “protezione” è salito a livello mondiale da 37,3 milioni del 2011 ai quasi 64 milioni del 2015. Appare difficile pensare che un muro possa fermare un fiume in piena, che come qualsiasi altro corso d’acqua troverà altre vie per raggiungere il mare.
Il numero di persone che vive in regioni instabili, purtroppo, è in crescita e alimenta il numero di quelli che decidono per la fuga. Solo in Unione Europea nel 2015 sono registrati circa 1,8 milioni di arrivi lungo i suoi confini tra i richiedenti asilo, su un totale di 4,8 milioni migranti. Un dato rivelatore che indica come ancora oggi siano i migranti “economici” la porzione maggiore dei flussi.
Invece di costruire muri sembra molto più interessante ragionare sulla progettazione di politiche internazionali capaci di promuovere dialoghi di pace e vie di sviluppo sostenibile. Si dovrebbe prendere atto che uno dei continenti a maggiore crescita demografica è l’Africa e in particolare l’area sub sahariana. In questi luoghi, secondo le previsioni, nei prossimi trent’anni la popolazione raddoppierà, passando da quasi 1 milione a più di 2. Senza impostare azioni politiche globali per promuovere un’economia sana i trend non si invertiranno.
Allo stesso tempo sarebbe più interessante investire su accoglienza e integrazione nelle politiche interne. Negli stessi Stati Uniti emergono segnali di ospitalità da un’opinione pubblica meno intransigente di quanto immaginano i governanti. Un sondaggio del Pew Research Centre avverte che il 63% degli Statunitensi intervistati dichiara che gli immigrati rafforzano il loro Paese attraverso il lavoro e il talento, mentre appena il 27% sostiene che lo opprimono, prendendo lavoro, case e sfruttando il sistema sanitario. C’è quindi una forte maggioranza che ha fiducia nella creatività del convivere delle differenze.
Fomentare una cultura delle barriere, che separi chi è dentro da chi è fuori, rischia di alimentare paure su stereotipi e pregiudizi per poi provocare discriminazioni concrete. Bisognerebbe invece considerare le potenziali risorse che popolazioni giovani possono fornire a continenti magari ricchi, ma sempre più vecchi, che non riescono a rinnovarsi dal loro interno.

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