Avvenire di Calabria

La lezione del Coronavirus: ritornare alla semplicità

Don Valerio Chiovaro tra ricordi e profezie: «Poco tempo, troppa fretta: ma per riempire le giornate di cosa?»

Valerio Chiovaro

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Diciamocelo, eravamo diventanti un po’ troppo arroganti.

Come diceva mia nonna: “in ogni famiglia ci vuole il medico, il carabiniere e il prete”. Nonostante la sua maculopatia ci vedeva lontano. In fondo, la storia le aveva lasciato solchi profondi: il terremoto del 1908, le due grandi guerre, la dignità della cultura e la concretezza della latifondista. Ci vedeva lontano!

Eppure oggi medici, carabinieri e preti sono i più esposti; e anche tanto necessari. E forse le due cose vanno sempre di pari passo: mia nonna aveva ragione!

Certo, non avrebbe potuto immaginare (o forse sì, col suo catastrofismo) che il mondo, o meglio quel “mondo nostro” che chiamiamo occidente, si sarebbe combinato così. Lei diceva il rosario e dialogava con una statua del Sacro Cuore a dimensione umana. L’unico lusso che in tarda età si era permessa. Una statua, di quelle che si vedono in chiesa, poggiata sul tavolo della sua stanza, accanto alla televisione.

Certo lei non se la sarebbe mai presa con Dio: ci parlava, si confidava, ci credeva e, in fondo, a quei tempinon c’era bisogno di dare le colpe agli altri. Ma, nel frattempo, siamo andati avanti (sigh!). Tutti si corre di più. Ma – direbbe mia nonna – verso dove? Chi siamo diventati? E se lo chiedessimo al creato? È indubbio, perdonatemi la franchezza: siamo diventati un po’ arroganti; forse il creato non ci sopporta più, e forse neanche noi ci sopportiamo più. Sì, siamo alquanto insopportabili! Corriamo, inquiniamo, pontifichiamo, estraiamo, consumiamo. Siamo arrivati allo squilibrio, abbiamo forzato il sistema: vogliamo figli e non riusciamo; non vogliamo figli e ci impasticchiamo; non ci manca niente e siamo depressi: sembra di essere al parco giochi dei viziati incontentabili. Abbiamo spinto la vita dentro la presunzione della velocità, della intensità, della perpetuità. E, così, siamo tanto veloci da non vederci, viviamo tanto intensamente da usarcisenza “sentirci”, ci convinciamo di essere eterni e non diamo senso all’attimo.

E – nell’esercizio di una memoria breve – sorridiamo nel ricordare la Milano da vivere, la Milano da bere. Tutti così “veloci”, produttivi, efficaci. Tutti a Milano, dà più possibilità, si guadagna di più, si diventa qualcuno, ci sono più servizi. E quando Milano mi dà poco: coraggio, troviamo un’altra ruota. Gente strappata ai suoi affetti, gente senza famiglia: perché senza legami si corre più velocemente, nella ruota del criceto: guadagno=tempo+impegno-relazioni. A che serve?

“Quanta fretta ma dove corri, dove vai, se ti fermi per un momento capirai”. Il gatto e la volpe: quello che salta è zoppo e l’intelligente è cieco. Di loro ci fidiamo: siamo un po’ pinocchio?

Poco tempo, troppa fretta: ma per riempire le giornate di cosa? Abbiamo creato chiacchiere su chiacchiere, sistemi su sistemi, economie irreali. Meno male che ci sono gli operai: quelli che producono, quelli che ci danno da mangiare. Perché il resto sono tempi ed energie spese per rimanere a galla, forse su un piroscafo, ma comunque per rimanere a galla.

L’intensità, poi... Che vite intense: intensamente lavoro, intensamente svago, intensamente io (e non è la marca di un profumo). Tutto è intenso, pieno, fino ad affogarsi. Scappo, corro per cinque giorni a settimana e intensamente lavoro, lascio casa, trovo casa (ma la casa dove è?), e poi intensamente vado a fare la spesa, intensamente ballo, sballo, bevo. E poi parto, intensamente, verso luoghi esotici, dove intensamente spendo: in fondo, che ho lavorato a fare così... intensamente? E poi, intensamente incontro, perché in fondo con mia moglie quando ci vediamo? Intensamente, così, rovino tutto. Ma non c’è tempo, sono già in strada, è lunedì e devo tornare a lavorare... intensamente.

La perpetuità, poi, quella “vita che non vogliamo invecchiare”, quel finto mito per il quale siamo per sempre. La vita al silicone che riproduce schemi adolescenziali incollandoli alla nostra età adulta. Il dover correre al passo di quella vita che noi stessi spingiamo da dietro, dimentichi di cogliere la sapienza di quella inerzia di moto che ci restituisce un tempo per la riflessione. Fingiamo di essere eterni, l’asticella della vitasi è spinta in avanti, portando in avanti il nostro orgoglio incapace di vivere la solitudine e la “decadenza”del nostro organismo. Viviamo così a lungo da esserci convinti della “necessità” della eutanasia, da dimenticare che la vita è anche morire. Sorride la morte beffarda, che cova dentro di noi da quando siamo nati. Sorride al nostro correre, al nostro “vivere intensamente”. Sorride e piange per ogni abbraccio che non abbiamo dato, per ogni occasione che abbiamo sprecato, per ogni affetto che non abbiamo vissuto, per ogni persona che abbiamo usato. Sorride e piange sorella Morte e va a braccetto con la gemella Vita. Si guardano: sorridono e piangono. Sorride la Vita quando sei sereno; quando la vivi. Piange la Morte quando, nonostante tutto, nonostante non ti manchi nulla, tratti la sua sorella gemella, la Vita, come se fosse il velocipede dei tuoi obbiettivi, lo strumento dei tuoi bisogni. Sorride la Morte, quando, finalmente hai capito che ti è amica quanto lo è la Vita. Entrambi piangono quando le confondi: quando vivi da morto e da morto pensi di non vivere.

Certo non è colpa tua, o mia: è il mondo. Forse è il creato al quale siamo diventati antipatici, insopportabili. Raccontiamocela così, ma almeno conveniamo ad una futuribile ammissione: la colpa sarà nostra se, nonostante tutto, non cambieremo marcia. Lo diceva mia nonna: “con le buone o con le cattive”.

Cambiare marcia, perché il mondo non è sud-nord-est-ovest: il mondo è un creato in equilibrio. Cambiare marcia, perché il mondo non è veloce, perché chi viene col barcone non viene da un altro mondo. Cambiare marcia perché siamo tutti sullo stesso barcone e non possiamo rubarci le mascherine a vicenda. In fondo non ci manca niente, e il fondo lo andiamo toccando.

E allora ritorna a casa, ritorna a ciò che è semplice, impara a fare il pane, impara ad ascoltare, accorgiti di come va il mondo e del suono di un silenzio che è il pentagramma della vita. E accorgiti della tua famiglia, perché – lo diceva mia nonna – in ogni famiglia ci vuole il medico, il carabiniere e il prete: il medico cura, il carabiniere protegge e il prete prega... E a noi, in famiglia, in questa umanità, non manca niente!

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